Le odierne difficoltà interpretative riguardo al vivere civile nascono non soltanto dalla memoria corta, ma anche dalla superficialità con cui ci rapportiamo con il pesante lascito del secolo appena trascorso. Esso, per quanto “breve”, appare tuttora una nebulosa che emana odore di morte, sotto lo sguardo pietrificato di miti granitici – spesso ricavati da blocchi ideologici –, che non interroghiamo più, e di cui siamo orfani.
Il caos
Dalla fine della Seconda Guerra mondiale il Novecento letterario si è connotato come il “secolo del caos“.
Vani sono stati i tentativi di fissare delle linee guida. Il problema di quella avanguardia che poneva il “rinnovamento” come problema centrale, si è risolto in un ulteriore prolificare di esperienze letterarie, mentre un’aurea di paternalismo circondava oramai i fedeli alla lezione del neorealismo. Il movimento che aveva conosciuto con lo slancio dell’immediato dopoguerra il suo momento migliore, già nel mezzo degli anni cinquanta era andato via via perdendo la sua forza, venendo meno una generazione che lo aveva nutrito dei suoi ideali e delle sue impellenze materiali.
Nuovi scrittori, che pure si dichiaravano, almeno in partenza, marxisti di ispirazione, si ritirarono poi nel privato; lasciando, infine, che la loro critica antiborghese producesse, spesso, soltanto mostri; ai quali gli epigoni, nell’epoca della mercificazione della cultura, non hanno opposto che una effimera resistenza. Coloro i quali non erano riusciti a superare il mostro borghese per eccellenza, la guerra, ha continuato, fin quando ha potuto, a filtrare attraverso quell’esperienza, la propria, umana ed artistica. Altri, i “conservatori” probabilmente, rimasero fedeli ad un certo verismo regionalistico e dialettale; anche – soprattutto in poesia – non è mancato chi, in quell’alveo, pensò di ravvivare le punte più avanzate di certo sperimentalismo.
Le metropoli
Ci sono le nascenti metropoli e tutte le contraddittorie realtà cittadine; e di certo, disagiata, ridisegnata ai margini dell’inurbamento massivo, perlopiù culturalmente prosciugata, nemmeno la provincia è risparmiata da nuove problematiche.
Il contrasto città-provincie è alla base di un bel groviglio di tematiche, tutto da districare, o meglio, da rappresentare: sono chiamate in causa la storia, la religione, le istanze sociali. In tali contrasti si calano alcuni autori, senza timori, altri, pur non potendo ignorare ciò che si muove in superficie, preferiscono un osservatorio che ha spesso le sembianze di una vera e propria torre d’avorio. Volendo essere meno categorici, è forse semplicemente di una questione di angolazioni.
Piccoli personaggi della provincia che appunto dalla provincia vogliono emergere; uomini in preda alle prime vere nevrosi del mondo moderno; donne incantate dalla pubblicità e dai grandi magazzini; il mito delle vacanze e delle automobili…
Coloro ai quali riesce del tutto indigesta la trattazione di quella materia che scaturisce da nuovi panorami urbani, si butta sulla questione operaia, che però, a ben vedere non è stata mai veramente centrale nella nostra letteratura, non quanto, almeno, tutte le chiacchiere della disputa politica e culturale avrebbero potuto far supporre.
Un settore largo, ma dai confini non certi, è quello che potremmo chiamare della “letteratura industriale”. Gli avanguardisti e i critici militanti guardano con sospetto anche a quest’altro settore dell’impegno letterario; parlano di “contenutismo” rischioso e conformistico. L’idea di doversi sobbarcare anche di una analisi sociologica è per loro un “rischio” in cui si pone la “ricerca”.
Inoltre nell’ambito della suddetta “letteratura industriale” l’intellettuale rischia di essere un produttore di cultura che finisce fagocitato nei meccanismi di un neocapitalismo che non risparmia più alcuno dei campi del vivere umano.
Per una sinistra egemone nel campo culturale il problema si è posto fortissimo, nascendo anche da una profonda contraddizione: nonostante gli auspici gramsciani (si veda in Letteratura e vita nazionale), l’intellettuale nel tentativo di farsi portavoce dell’opposizione al neocapitalismo, ha fatto sempre più fatica ad essere riconosciuto come vate o riferimento della stessa classe operaia, scivolando ora in una élite salottiera e altolocata, ora nelle dimenticate stamberghe di questo paese.
Si infrangeva, insomma, la grande speranza nata all’indomani della fine della guerra, e cioè che le istanze di una rinascita nazionale sul riscatto del popolo, camminasse insieme ad una cultura anch’essa rinnovata.
Nemmeno il Risorgimento c’era riuscito, naufragando nel nazionalismo più bieco, e nei suoi frutti amari.
Letteratura e vita civile
Anche il neorealismo pare esaurire ben presso la sua forza, seppure cinema e letteratura hanno fatto scuola.
All’alba degli anni sessanta, in verità, il neorealismo viene accantonato dai maggiori esponenti della cultura italiana. Nasce la neo-avanguardia, che ha come scopo primario il sottrarre l’arte ai condizionamenti del mercato, salvarla dal consumo. (Come questo accada poi ha dato luogo a interessanti paradossi, a tutt’oggi capaci di regalare ai fruitori delle arti esperienze davvero godibili).
Per far questo – come si è detto –, i contenuti da soli non sono bastanti; anzi essi son guardati con sospetto.
Strutturalismo, la psicologia, la fenomenologia: questi nuovi concentrano il proprio sforzo sulla forma, sul bisogno di tecniche diverse.
In tale direzione vanno quelli di “Officina“, rivista bolognese fondata da Roversi, Pasolini e Leonetti.
Oggi sembra piuttosto che essi furono tutti tesi nel tradurre gli scopi della cultura, nell’idea dominante di far emergere l’immagine complicata e problematica della realtà, e le contraddizioni inerenti al vissuto.
Resta da chiedersi quanto di tutto questo ci può aiutare oggi, a fare emergere i nostri veri mali, se non ancora a risolverli.
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