Torino, un’alba domenicale, grigia e piovosa, Amerigo Ormea esce di casa per raggiungere il seggio elettorale in cui è scrutatore.
Non un seggio come gli altri, ma la “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, ovvero il “Cottolengo”, il ricovero, il rifugio, il nascondiglio di tutti i quelli che la società non può tenere con sé.
In La giornata di uno scrutatore del 1963, troviamo le amare considerazioni sui punti fragili della democrazia di Italo Calvino, alle prese con gli errori di natura e le distorsioni del sistema.
“…Ammesso che tutti sappiano la funzione di quell’enorme ospizio, di dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, già fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere e occorrerebbe definire il suo posto nella pietà dei cittadini, il rispetto che incuteva anche nei più distanti da ogni idea religiosa, e nello stesso tempo il posto tutt’affatto diverso che aveva assunto nelle polemiche in tempo d’elezioni, quasi un sinonimo di truffa, di broglio, di prevaricazione.”
Con toni quasi da reportage Italo Calvino ci introduce ai tristi ambienti dove pure la bandiera democratica sbiadisce e proprio quando viene spiegata.
La “singolarità” politica di Calvino
La giornata di uno scrutatore fu pubblicato all’inizio degli anni Sessanta, ma sostanzialmente gli episodi narrati risalgono ad una diecina di anni prima, all’epoca della “legge truffa”, uno dei momenti di massima tensione civile e politica nel nostro paese.
Il racconto rientra nel filone dell’impegno civile coltivato da Calvino in modo forse più difficoltoso rispetto a quello avventuroso-fantastico.
A conferma delle difficoltà, la lunga gestazione del testo, ispirato dalle elezioni politiche del 1953, durante le quali all’autore (iscritto nelle liste del PCI) capitò di visitare il seggio del Cottolengo. C’era la difficoltà di toccare temi come “l’infelicità di natura”, come ebbe a scrivere Calvino al Corriere della Sera, “del dolore, la responsabilità della procreazione”, temi da lui mai affrontati prima. Temi delicati, immischiati poi nelle questioni politiche della giovane Italia repubblicana; nei fragili equilibri di una logica democratica ipocrita e spartitoria.
Al motto di “arrivano i posteri!”, coniato dallo stesso Calvino, successe poi che nel 1957 l’intellettuale usciva dal PCI, in dissenso con gli ultimi rivolgimenti, sull’onda di un’autocritica arrivata molto prima di quanto le classi dirigenti fossero propense a credere.
Nel ’61 Calvino ottenne di tornare al Cottolengo come scrutatore per le amministrative di quell’anno. La situazione che descrive in queste pagine intrise di riflessioni sull’etica, sulla politica, sulla natura, con lo spirito “illuministico” riconosciutogli dal Contini, è filtrata dallo sguardo progressivamente sempre più disilluso del protagonista, militante alle prese, tra l’altro, con le svolte possibili della propria esistenza.
Nella fucina del voto
Un vago iniziale entusiasmo prende l’Ormea, al momento del suo ingresso nella tetra struttura. Ecco l’austerità democratica contro l’Italia del fasto e dello spreco, della violenza dei ricchi.
Tuttavia il materiale umano si rivela subito scarso, e anche deplorevole. Il riferimento non è naturalmente ai male in arnese, che rappresentano l’utenza incapace di intendere e di volere dell’ente benefico. Ecco gli interdetti dall’esistere pienamente, ma non dal votare.
Il buon San Giuseppe Benedetto Cottolengo non poteva certo immaginare che l’opera pia da lui fondata divenisse un secolo dopo fucina di voti.
Non è un proscenio da Grand Guignol, una sua suggestiva sezione, con la sua spettacolarità “deviata”. Non è il ballo di freaks of nature ammaestrati per il circo. È una realtà amara che Calvino ci tramanda.
Man mano che la condizione dei votanti si aggrava, s’accresce il problematico puntiglio etico di chi cerca di arginare l’attivismo ecclesiastico a favore della Democrazia Cristiana.
Via via che il meccanismo umano s’inceppa, scendendo la china di cosa la natura è in grado di fare, sale la fibrillazione negli addetti al pubblico servizio, gli scrutatori da un lato, responsabili di un nuovo mondo laico, i gestori dell’ospedale dall’altro, creando i tanti momenti che fanno di questa un’opera da recuperare.
Alla panoramica storico-filosofica tracciata magistralmente da Michel Foucault in un testo capitale come Storia della follia nell’età classica (’61), si va ad aggiungere questo piccolo racconto del Novecento, che ci lascia, a seguito del suo finale, soli a fare i conti con la natura dell’uomo.
“Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un’altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra. Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città.”