Ad Astra: nello spazio siderale, il difficile rapporto tra un padre e suo figlio ed il destino dell’umanità sul pianeta terra.
Thriller fantascientifico ambientato in un futuro indefinito, Ad Astra racconta le vicende di Roy (Brad Pitt), un astronauta che viaggia fino al limite del sistema solare alla ricerca di suo padre (Tommy Lee Jones), da tempo disperso in seguito a una pioneristica missione spaziale, per cercare di svelare un mistero che minaccia la sopravvivenza del nostro pianeta: nel corso del viaggio scoprirà segreti che minacciano l’esistenza umana e il nostro posto nell’ordine del cosmo.
Per chi conosce il cinema di James Gray (Civiltà perduta, C’era una volta a New York, Two Lovers, I padroni della notte) non sarà di certo una novità scoprire che al centro della sua ultima fatica c’è il rapporto (disfunzionale) tra un padre e un figlio: le dinamiche familiari, da sempre vero fulcro dell’indagine grayana, vengono anche in questo caso innestate all’interno di un film di genere, debitore di un certo classicismo ma allo stesso tempo declinato con un intimismo dolente, nel quale la prospettiva viene ribaltata da una vicenda minimale in costante opposizione a una ricercata magnificenza scenografica.
Dopo lo splendido e sottovalutatissimo Civiltà Perduta, fortemente ispirato ai film di avventura degli anni Sessanta e a un senso produttivo squisitamente rétro, tocca alla fantascienza essere rivista e rivisitata: purtroppo – lo diciamo sin da subito – con risultati decisamente diversi rispetto all’ultima grande prova dell’americano che, complice una produzione travagliata e certamente molto complessa, finisce per perdersi tra le pieghe di un racconto non sempre all’altezza delle solide premesse, nel quale la retorica e le tante semplificazioni narrative sparse nei 124 minuti di durata annullano quasi completamente l’interesse e la tensione dello spettatore.
Se gli intenti di Gray rimangono apprezzabili e certamente coerenti all’interno di quello che è ormai un preciso percorso autoriale, utilizzare lo spazio profondo come metafora di un viaggio alla ricerca di se stessi non è di per sé molto originale, e quel che è peggio è che tutti gli snodi fondamentali del film vengono immancabilmente sottolineati da frasi a effetto e situazioni ai limiti del paradosso, che pur esplicitando il senso del racconto finiscono per castrarlo, trasformandolo in qualcosa di già visto e a tratti addirittura in un’operazione monocorde.
Sebbene si attinga a piene mani dalla Storia del Cinema – Apocalypse Now e 2001: Odissea nello Spazio sono esplicitamente citati sia nell’estetica che nell’etica del racconto – l’impressione è che questa volta Gray non riesca a donare all’opera quella personalità di cui è capace, intrappolato forse in un meccanismo produttivo più grande di lui, comandante di una navicella che evita il naufragio e che pur riuscendo a fare ritorno alla base non dona al suo equipaggio al di qua dello schermo quelle consapevolezze e quelle aperture che invece trasformano il protagonista in un uomo nuovo.
In questo contesto non è certo di grande aiuto Brad Pitt, impegnato in prima persona nella produzione del film, incapace di regalare al protagonista che interpreta quelle sfumature emotive di cui l’opera avrebbe bisogno: in questo, e non solo in questo, il Pitt di Ad Astra ricorda molto da vicino il Gosling di First Man, che proprio un anno fa venne presentato qui a Venezia in Concorso.