Il titolo originale di Furore è The Grapes of Wrath, letteralmente “l’uva dell’ira”, ma potrebbe essere meglio tradotto, credo, come “i frutti dell’ira”. Questo grande romanzo di John Steinbeck fu dato alle stampe 1939; è il racconto avvincente di un’epoca. Il romanzo simbolo della Grande Depressione, l’odissea delle famiglie migranti lungo la Highway 66, in uno scenario naturale quanto mai pregno di significati e orizzonti da “Terra promessa”.
“…Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta perplessità ma acquistarono un’espressione dura, collerica ostile. Allora le donne capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora ardirono domandare: Cosa facciamo? E gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi…”
Uomini donne e bambini hanno messo il naso fuori casa dopo due giorni di tempesta, là in Oklahoma. Un vento terribile fortissimo ha menato dovunque polvere e acqua, ha distrutto il granturco, ha compromesso il raccolto.
Poi, lasciamo quegli uomini seduti in silenzio sui gradini, davanti alle loro case: “Non parlavano; meditavano, calcolavano.”
Nel capitolo primo di Furore, Steinbeck chiude così un crescendo che all’inizio pare quasi la quieta contemplazione di un avvicendarsi di stagioni, nella “regione rossa” e “nella regione grigia”.
La crisi è un vento. Più ancora dell’economia la natura può incidere sulla sussistenza e la felicità dell’uomo. (E d’altro canto nel titolo originale del romanzo si coglie il forte richiamo ai frutti amari della terra e alla rabbia sociale).
Natura economia società
Furore è il più potente affresco della Grande Depressione e delle conseguenze che essa ebbe sull’America degli anni trenta. Ma questo romanzo, nel suo incipit, diventa una delle più efficaci rappresentazioni del disperante rapporto tra uomo e natura. Steinbeck descrive in un crescendo il semplice cambio della stagione il passare delle nuvole, l’arrivo di un vento che porta detriti e distruzione sui campi di granturco. Passata la bufera intere famiglie, già disastrate nel contesto ci quella che fu l’epopea del New Deal, non possono far altro che contemplare tanta distruzione: le donne guardano in silenzio gli uomini: soltanto un loro rabbioso cenno di reazione potrà salvare quelle povere famiglie.
L’avventura dell’ex recluso Tom Joad ha qui inizio su questo fondale di natura ingrata e stravolta come la sorte della mandrie umane costrette a inseguire un piccolo sogno e a ingerire parecchia polvere e acqua malata.
Linee infinite d’asfalto tagliano sterminati e polverosi campi, inerti, fatti di erbacce e rovi, in cui lo scrittore coglie il brulicare di vita animale in cerca d’appiglio.
Di fronte questo affresco il richiamo del naturalismo appare irresistibile per lo scrittore.
La terra, il mondo rurale – dei vasti e aspri spazi – è un personaggio tutt’altro che occulto, ispira ancora oggi schiere di scrittori americani questo contrasto con la città e la meccanizzazione che avanza in quest’epoca cruciale e difficile, un po’ come la testarda tartaruga del terzo capitolo.
Per risolvere la situazione difficile, il presidente, F. D. Roosevelt aveva avuto un’idea un po’ controcorrente: egli pensava di trasferire nelle campagne e di avviare alla conversione agricola le famiglie che languivano nelle cinture malsane delle città sorte nei decenni precedenti su un territorio vastissimo.
Si crearono piccole comunità, enclave. La chimera di stoppare così l’inurbamento si rivelò abbastanza presto.
Fenomeni atmosferici e finanziari giocavano contro l’uomo della strada. Si riuscì forse a fornire una stampella e il vero “riscatto” sarebbe venuto con la Guerra del ’40-’45 che impiegò tanta gente e tanta altra ne tolse di mezzo.