Svezia, 2018. Sergei e Natalia sono stati costretti a fuggire dal loro Paese natale dopo un attentato che ha quasi tolto la vita a Sergei. Si sono stabiliti con le loro due giovani figlie in Svezia, in attesa che il consiglio per l’immigrazione decida in merito alla domanda di asilo.
Fanno del loro meglio per condurre una vita normale: lavorano sodo, mandano i loro figli in una scuola svedese, imparano la lingua, si sottopongono a ispezioni periodiche da parte delle autorità, sperando che un giorno possano diventare cittadini svedesi.
Ma quando la loro domanda di asilo viene respinta, Katja – la figlia più giovane – crolla e cade in un misterioso coma. Di fronte a un pesantissimo dilemma morale, la resilienza di Sergei e Natalia sarà messa a dura prova: possono sperare di salvare loro stessi e le proprie figlie?
A distanza di più di dieci anni dall’ultimo passaggio, torna nella selezione ufficiale veneziana Alexandros Avranas, che proprio nel 2013 con Miss Violence era stato insignito con il prestigioso Leone d’Argento alla regia (con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile finita nelle mani di Themis Panou, protagonista del film).
Solcando lo stesso sentiero dell’opera precedente e costruendo il film su una spigolosa algidità e una maniacale geometricità, il regista greco mette in scena un dramma affrontando un tema inedito al cinema: la sindrome della rassegnazione. Una malattia rimasta nascosta per oltre vent’anni, nonostante abbia colpito centinaia di bambini in Svezia sin dai primi anni 2000, che colpisce generalmente coloro i quali provengono da Paesi in cui sono perseguitati o sottoposti a esperienze traumatiche, troppo intense per le loro giovani menti.
Una sindrome inizialmente negata da buona parte della comunità internazionale, facendo in modo che alcune amministrazioni nazionali sospettassero che le famiglie stessero manipolando la situazione per ottenere il diritto di asilo, e che oggi è invece riconosciuta come meccanismo di protezione post-traumatica, una reazione alla paura di dover tornare nel proprio Paese d’origine; ed è proprio sulla base di questo latente non detto che Avranas sviluppa il proprio film, giocando a innestare il dubbio finanche nello spettatore.
Quiet life riesce dunque a muoversi sullo sfondo di un’atmosfera kafkiana, trasformandosi dopo un pugno di sequenze in una sorta di distopia amministrativa al limite della fantascienza, in grado di trasmettere sullo schermo quella strana dimensione da fiaba che ricorda il primo (e decisamente meno pacificante) Yorgos Lanthimos.
Avranas non risparmia stilettate al sistema politico svedese, mettendo in luce una risposta che diviene distacco, political correctness, costruzione di regole sociali incapaci di comprendere l’umanità che abita l’individuo, per poi centrare in maniera abbastanza convincente un giusto contrappeso a tutto questo, attraverso l’umanità e l’amore che nella seconda parte del film affiorano con sorprendente naturalezza, persino per quegli stessi personaggi responsabili di tale amministrazione distopica.
Ed è solo liberandosi da questa burocrazia fredda e disumanizzante che i protagonisti si riscoprono come coppia e ricostruiscono la loro famiglia, tornando a riprendere il controllo delle proprie vite; e ci sembra altrettanto evidente, e assai condivisibile, che il greco affidi ai bambini – attorno ai quali il film si apre e si chiude – il potere di assolvere i genitori dai loro errori, espandendone gli orizzonti e aprendo nuove prospettive di futuro.