Venezia 79 – Saint Omer

Tribunale di Saint-Omer. La scrittrice trentenne Rama (Kayije Kagame) assiste al processo di Laurence Coly (Guslagie Malanda), una giovane donna accusata di aver ucciso la figlia di 15 mesi dopo averla abbandonata sulla riva di una spiaggia del nord della Francia. Rama intende trarre dal caso una rivisitazione contemporanea del mito di Medea in prospettiva di un nuovo lavoro, ma mentre il processo va avanti nulla procede come previsto e la scrittrice, incinta di quattro mesi, sarà costretta a mettere in discussione ogni certezza sulla propria maternità.

Apprezzatissima dai cinephiles più intransigenti ma decisamente poco conosciuta nel circuito mainstream, Alice Diop approda nel Concorso di Venezia 79 con il suo primo film di finzione, dopo una serie decisamente ricca di documentari, capaci di raccogliere premi prestigiosi in giro per il mondo (gli ultimi in ordine di tempo sono i due assegnati dalla Berlinale a Nous poco più di un anno fa).

Ispirato a una vicenda di cronaca nera di qualche anno fa, Saint Omer è un’opera che con il documentario ha molto a che spartire, sospeso com’è tra cronaca giudiziaria e contrappunto fictional: la storia di Laurence Coly ricalca fedelmente quella di Fabienne Kabou, che come la protagonista del film uccide la figlia di pochi mesi e affronta un percorso processuale che non le eviterà vent’anni di reclusione, così come quella di Rama che ha ben più di un’analogia con il vissuto personale della regista.

La straordinarietà del film sta nelle pieghe del racconto, nei non detti che gradualmente affiorano nelle parole e nelle arringhe dei magistrati: non è un caso che Saint Omer sia una cittadina nel Nord estremo della Francia e che sia ormai da tempo una roccaforte lepeniana. Lo strisciante razzismo nei confronti della donna, ben istruita e dotata di sbalorditivo eloquio, emerge in maniera subdola nel corso del dibattimento processuale, così come l’impossibilità di comprendere a fondo determinati costrutti culturali indissolubilmente legati al Paese di provenienza, alle tradizioni più radicate che si riverberano nelle seconde e nelle terze generazioni, a quel metissage oggi fortemente al centro del dibattito politico di mezza Europa.

Con grande sapienza e avvicinandosi alle dinamiche familiari più intime senza scivoloni retorici, Alice Diop centra il grande film nel momento in cui stabilisce una connessione quasi mistica tra le due protagoniste, lasciando fuori campo – visivamente e quindi eticamente – una serie di elementi tipici di un certo cinema commerciale che avrebbero fornito facili concessioni moraleggianti.
Con risultanze importanti, evocando epica e mitologia, complice la Medea di Pasolini.

Notevolissimo è il precipitato visivo che Diop costruisce, fornendo alla dimensione visiva un valore fortemente etico: l’imputata si offre alla contemplazione dello spettatore pur deviando il suo sguardo lateralmente, senza stabilire un contatto visivo, accrescendo un senso di enigmatica inaccessibilità. Il repentino volgere degli occhi dà un senso di energia trattenuta e di vitalità straordinarie, garantendo all’immagine una penetrante introspezione psicologica. Un Ritratto di Dama davinciano a suo modo indimenticabile, che mostra una volta di più come non esistano temi troppo delicati per essere affrontati, ovviamente con il supporto di una giusta distanza prospettica e di un bagaglio concettuale adeguato.