Polonia, 1983. Il Paese è scosso dal caso di Grzegorz Przemyk, uno studente liceale picchiato a morte dalla milizia.
Ispirato a fatti realmente accaduti, il film ripercorre la storia di Jurek Popiel (Tomasz Ziętek), l’unico testimone del pestaggio che, da un giorno all’altro, diventa il nemico numero uno dello Stato. Il regime tirannico mette in moto l’intero apparato – servizi segreti, milizia, media e tribunali – per annientare Jurek e le altre persone coinvolte nel caso, inclusi i suoi genitori e la madre di Grzegorz, Barbara (Sandra Korzeniak).
In un’epoca attraversata da un profondo dibattito sul concetto di verità e le minacce ed esso collegate, assistere alla proiezione, alla 78. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, di Żeby nie było śladów (Leave no Traces) è molto problematico. La storia giudiziaria che nasce in seguito all’assassinio di Grzegorz Przemyk per mano dei soldati del regime comunista in Polonia è un’angosciante esplorazione della perversione che diventa sistema quando vengono a mancare i diritti fondamentali dell’uomo.
Jan P. Matuszyński inverte a tal proposito la struttura classica del thriller, mettendo subito in chiaro che il colpevole non è un uomo, ma una visione del mondo.
I film sono uno strano tipo di specchio: possono penetrare nelle pieghe più profonde dell’anima di una persona, protagonista o spettatore che sia. Ognuno può vedere un’immagine diversa riflessa in uno specchio, ed è in questa caratteristica che risiede la bellezza del cinema.
“Grzegorz Przemyk amava la propria libertà quando la polizia gli chiese di esibire la sua carta d’identità: sapendo di non essere tenuto a mostrarla in quanto allora la legge marziale era stata abolita, non lo fece. Nessuno sa chi abbia inferto l’ultimo colpo fatale. Ha un non so che di kafkiano e ricorda altri casi contemporanei. La presenza di un testimone oculare è l’unica ragione per cui questa storia è venuta a galla”, ha dichiarato il regista nelle note di produzione.
Sembra infatti diffusa, tanto in Polonia che altrove, la pratica di picchiare a morte dei ragazzi nei luoghi in cui dovrebbe essere difeso il diritto alla vita: pietre d’inciampo di un potere che trova legittimazione nella paura e nella violenza, costringendo innocenti ad ammettere crimini mai commessi, affamando famiglie e mettendo a tacere il minimo dubbio. Leave no traces, il film del regista polacco non ha alcuna intenzione di soccombere alla sofisticazione della verità e si concentra sullo svelamento di trame, pratiche e ragionamenti alla base di un metodo violento che si fa distorta istituzione.
Il raccapricciante viaggio nelle bassezze che l’uomo può commettere per nascondere le proprie tracce e farla franca sembra non avere fine nel corso delle quasi tre ore del film: una serie di abissi concentrici generati dalla morte dei personaggi abbattono la fiducia nel potere costituito, senza alcuna possibilità di rimediare. L’umano viene spazzato via in nome di un bene superiore da proteggere ad ogni costo, costringendo chi vuole preservarlo a un vero e proprio atto di fede laica verso la verità.
Leave no traces costituisce un interessante sguardo alle complessità strutturale della situazione politica polacca degli anni Ottanta e allo stesso tempo una cupa sollecitatoria del fatto che, modificando area geografica e periodo storico, la soluzione all’abuso di potere che diventa prima prassi e poi legge non è ancora stata individuata. Il prezzo della resistenza a tutto questo è proibitivo, ma il cinema può illuminare gli angoli bui della Storia, costruire nuove prospettive e spianare la strada per il futuro.