Trilogia di Bourne a parte, la filmografia di Paul Greengrass è composta da titoli che mirano a ricostruire eventi reali tragici e violenti destinati a segnare una svolta nelle vite e nelle coscienze di uomini e Paesi, spesso con inevitabili ripercussioni sull’intero scenario internazionale ormai interconnesso.
Da Bloody Sunday a Captain Phillips – Attacco in mare aperto passando per United 93, Greengrass con 22 July si concentra sulla strage compiuta in Norvegia il 22 luglio 2011 da Anders Behring Breivik, autore prima dell’attentato contro la sede del governo a Oslo e poi del massacro sull’isola di Utoya, dove si teneva il campo estivo dei giovani attivisti del Partito laburista.
Il regista britannico non perde tempo e mostra subito, in successione, le azioni terroristiche messe in atto quel giorno da Breivik (interpretato da Anders Danielsen Lie), dedicando il resto della narrazione alla rappresentazione delle conseguenze dell’eccidio che ha lasciato oltre novanta vittime sul campo, insieme a profonde ferite sia fisiche che immateriali. Il primo ministro Jens Stoltenberg apre un’inchiesta sulle eventuali responsabilità del governo e Breivik chiede di poter essere rappresentato dall’avvocato Geir Lippestad (Jon Øigarden), in passato difensore di un naziskin.
Greengrass, autore anche della sceneggiatura basata sul libro della scrittrice e giornalista Åsne Seierstad Uno di noi, alterna l’iter processuale di Breivik al difficile e doloroso recupero – fisico e psicologico – di uno dei sopravvissuti del 22 luglio, Viljar Hanssen (Jonas Strand Gravli). Sceglie questi due punti di vista per due ragioni importanti e complementari.
Quella di Utoya è stata una strage non di matrice islamica, portata avanti da un estremista di destra che ha agito con l’intenzione di fermare il flusso migratorio e il multiculturalismo in Norvegia. Dietro al suo piano non c’è stata follia, ma un’ideologia ben precisa; un’ideologia che chiama apertamente in causa il presente politico e sociale dell’Europa, con l’affermarsi in moltissimi Stati di movimenti populisti di destra ed estrema destra.
La risposta a quest’ondata di odio verso il diverso, che rischia di generare altri orrori, può venire solo dai cittadini, da ogni singola persona, suggerisce Greengrass. Da qui la scelta di soffermarsi così tanto su uno dei sopravvissuti – Viljar Hanssen appunto – che dall’iniziale disperazione prende via via consapevolezza dell’importanza di non darla “vinta” a Breivik.
Se la prima parte di 22 July propone lo stile che ha reso Greengrass famoso – uno stile dinamico e realistico, teso alla costruzione spasmodica della tensione – il resto del film si dipana su una messa in scena tradizionale sia dal punto narrativo che estetico. Il film si pone in bilico tra due istanze: volontà di non edulcorare l’accaduto e, al contempo, rispetto delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti, evitando l’efferatezza. L’equilibrio tra queste due istanze è raggiunto con efficacia. Dove delude 22 July è nella mancanza di inedite chiavi di interpretazione di quanto compiuto da Breivik o di approfondimento di alcuni personaggi introdotti nella narrazione, come ad esempio l’avvocato Lippestad.
La scelta di far parlare gli interpreti, e di conseguenza i personaggi, in inglese anziché nella lingua madre tende a estraniare e allontanare lo spettatore da quanto vede sullo schermo, ma risponde probabilmente all’esigenza del regista di realizzare un film il più possibile universale e rivolto alle nuove generazioni, come ha espressamente indicato Greengrass in conferenza stampa a Venezia, trovando in Netflix, dove sarà distribuito da ottobre, il medium più adatto per raggiungere questo target.
Seppur ben lontano dai picchi della carriera di Paul Greengrass, 22 July è un film che ha ben chiari i propri obiettivi e li porta avanti con coerenza, gettando un inquietante ponte tra i fatti del 2011 e un’attualità densa di ombre.