25 Aprile Anniversario della Liberazione d’Italia, o anche Festa della Liberazione, e in quest’anno di guerra ucraina, festa di liberazione e di pace… Si torna, come sempre, a parlare dei valori fondativi. Ci si interroga su quale sia il modo giusto per rendere sempre attuale questo appuntamento, che inevitabilmente si carica di tanti possibili significati. Liberazione come esito finale della lotta armata (senza dimenticare il ruolo degli Alleati); come vittoria della Resistenza. Ma oggi ci si chiede, quante forme di resistenza esistono? Il dibattito è solo all’inizio, nonostante i decenni passati; il ricordo deve rimanere vivo e con esso le ragioni stesse di questa festa.
Ma noi italiani da cosa ci siamo liberati?
Letteratura e Resistenza: valori condivisi nel tempo della storia
“Dopo di allora, ad ora incerta,
quella pena ritorna,
e se non trova chi lo ascolti
gli brucia in petto il cuore.”
(P. Levi, “Il superstite”)
In occasione delle celebrazioni del 25 Aprile si rinnova una decennale tradizione italiana: si torna a parlare dei valori fondanti della Repubblica: il punto nodale è naturalmente il rapporto tra questi valori e la questione di un reale rinnovamento. Revisionismo, dialettica destra-sinistra sui “veri” padri della patria ricostruita e tutte le strumentalizzazioni di vario genere, sono il vero male di questo scambio di accuse che puntuale si ripresenta. In questo particolare frangente storico inoltre una guerra in seno all’Europa ci pone di fronte a una triste realtà: la guerre non sono finite, mai.
Può esserci d’aiuto non dimenticare che oltre ai crudi fatti storici, c’è un’altra dimensione, che non andrebbe mai lasciata fuori, e cioè quella esistenziale. Il vero nodo è il collegamento tra le idee, che viaggiano in un loro empireo, e la vita dell’individuo che è tutta immersa nel conflitto e nel rapporto con l’altro.
Ci viene, dunque, incontro la letteratura, che recupera quella parola, quel pensiero, quello stato d’animo che ha guidato gli uomini; c’è l’ideologia tout-court, ma pure la predisposizione alla lotta che nasce in opposizione alle idee liberticide e ai mezzi soverchianti dei nemici. Perché, e la letteratura memorialistica ce lo dice, possiamo parlare certo di pacificazione oggi, ma pur sempre nel riconoscimento di un vissuto tragico fatto solo di compagni di lotta e di un comune avversario. Rifugiarsi come sempre nell’altisonante invocazione alla “Libertà” pare quanto mai illusorio, perché, parafrasando J.P. Sartre, è proprio la libertà la condanna dell’uomo.
Gli scenari della resistenza nella letteratura italiana
Nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino ci parla della guerra di liberazione dal punto di vista di un ragazzino. Pin, questo il nome, si districa tra le brutture della guerra, i tradimenti degli adulti, vedendo e compiendo atti più disperati che eroici, ma sempre seguendo i suoi impulsi di bambino, seppure in una infanzia sfigurata. Indubbiamente, l’adozione di una visuale fanciullesca da parte dello scrittore ligure lo porta ad aderire a un topos che sarà spesso ripreso in seguito, soprattutto in ambito cinematografico (altro archetipo è infatti Germania anno zero di Roberto Rossellini). Calvino annota nella prefazione del ’64 al suo libro sulla Resistenza: “L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia [immediatamente dopo la fine della guerra, ndr] fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, colletivo”, con il concorso delle tante testimonianze dirette che alcuni si peritarono di raccogliere negli anni successivi alla fine guerra.
La resistenza è stata centrale in alcuni ampi capitoli della storia della nostra letteratura ed è stata soggetto vissuto e rielaborato. Alcuni scrittori hanno non solo narrato i fatti ma anche messo a nudo i sentimenti. Alcuni sono stati “militanti”, altri meno. Ma tutte queste pagine trasudano sofferenza, mentre sottotraccia viaggiano disorientamento e idealismo come le due facce di un’epoca.
Beppe Fenoglio, ha scelto una via antieroica, facendo della lotta per la difesa della città di Alba il fondale sconvolgente dell’azione di uomini e donne con le loro passioni e debolezze. Una questione privata e I ventitrè giorni della città di Alba rappresentano il nucleo centrale di un discorso prettamente letterario che avrà la sua summa (interrotta) in Il partigiano Johnny.
Sorretta dall’adesione all’area di forze che rappresento la nascente opposizione al nuovo establishment di matrice democristiana, ci sono gli scritti di intellettuali come Elio Vittorini (Uomini e no) e soprattutto, fuori del campo strettamente letterario, i film di alcuni cineasti tra i quali Roberto Rossellini, Florestano Vancini, Carlo Lizzani.
Quella di Giorgio Bassani, invece, è una potente esposizione memoriale che piega le ragioni della poetica, che ci fornisce un quadro vivido di ciò che accadde anche prima dell’Armistizio; una testimonianza meno elaborata e mediata, più diretta, e spesso di notevole valore formale.
Non bisognerebbe mai dimenticare fatti come le leggi razziali, le deportazioni non solo degli ebrei, ma di tutti gli oppositori che chiedevano libertà di parola; l’adesione più in generale all’orizzonte delirante fatto di violenza e disumanizzazione tracciato dal nazismo. Una vera e propria linea d’ombra tra l’umano e la sua negazione.
La riduzione ai minimi termini di un devastante “orizzonte di gloria” è d’altronde perfettamente rintracciabile in racconti sulla guerra come Il sergente nella di neve di Mario Rigoni Stern, o come Il deserto della Libia di Mario Tobino sulla guerra in Nord Africa, che riempie di vero sacrificio e di storia la sublimazione altamente significativa del deserto di Buzzati.
Vincitori e vinti, sommersi e salvati
La storia la scrivono i vincitori: quante volte abbiamo sentito questa affermazione? Ma chi sono i vincitori, chi i vinti? Di fronte a tutto questo il susseguirsi di scritti su “il sangue dei vinti” pare un insistito, forse lucroso, esercizio di antiretorica basata su un’idea di nuova democrazia che in Italia, come vediamo, si è già affermata. In Italia non c’è stata nemmeno l’ombra di una Norimberga, le seconde linee e gli eredi del fascismo si sono festosamente riciclati e riconciliati. La lista dei criminali di guerra italiani compilata nel dopoguerra nelle sventurate colonie africane fu bellamente insabbiata con il beneplacito degli alleati.
Non esiste il bene e il male, è una visione manichea.
Sarà vero, ma allora vorremmo allora ricordare Primo Levi che in un passo de I sommersi e i salvati circa il ricordo, annota: “I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. […] …ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dell’esperienza […] che si istalla al posto del ricordo greggio, e cresce a sue spese.”
Contro questa dannosa cristallizzazione proviamo a portare in superficie il ricordo grezzo attraverso quella letteratura più strettamente diaristica. Qui la menzione resta un po’ episodica, ma alla luce delle parole di Levi, appare ugualmente importate: ricordiamo allora il partigiano ebreo Emanuele Artom con i suoi Diari (1940-’44), oppure Guerriglia nei Castelli romani di Pino Levi Cavaglione pubblicato nel ’45; o ancora, Gli anni che lasciano il segno di Angelo Dina, la cronaca di Giacomo De Benedetti che narra la deportazione romana intitolata 16 ottobre 1943. E non dimentichiamo il contributo di tante donne che si misero in gioco affrontando carcere, stupro e morte: sono particolarmente toccanti i loro contributi, quelli più noti, come L’Agnese va a morire di Renata Viganò; e meno noti, Il fumo di Birkenau di Liliana Millu, In contumacia di Giacoma Limentani; o il libro di memorie dal lager di Giuliana Tedeschi intitolato C’è un punto della terra… .
Vorremmo, infine, ricordare il pittore e scultore Aldo Carpi, per capire l’importanza della parola scritta in questo recupero, laddove i diari di combattenti e deportati assurgono a imprescindibile contributo letterario e storiografico. Carpi è stato un deportato, in Diario di Gusen (1993) ha raccolto le lettere alla moglie scritte durante l’internamento, il che fu un piccolo di miracolo visto che gli aguzzini e talvolta anche i vicini di sventura erano particolarmente spietati con gli scrittori. A conclusione di un drammatico passaggio riguardante tale aspetto della sua terribile esperienza, Carpi scrive: “L’impressione del pericolo che correvamo, io e le mie carte, aumentava, nella mia miseria, il valore di esse, e mi pareva che tutto il mio bene fosse là…” .