P’tit Quinquin (Alane Delhaye) è un adolescente che vive nel Nord della Francia, in una realtà agricola all’apparenza semplice e serena. Sono appena iniziate le vacanze estive, e il ragazzo passa le sue giornate in compagnia di due amici e della fidanzatina Eve, tra scherzi ai turisti, piccole rivalità amorose e dosi massicce di spensieratezza. In una mattina qualsiasi, calda e soleggiata, l’attenzione del gruppo viene attirata da un evento insolito, e a suo modo straordinario: un elicottero vola a bassa quota nei pressi di un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale, non molto distante dai pascoli e dalle abitazioni del villaggio. Incuriositi ed eccitati, i ragazzi seguono il mezzo e scoprono il motivo di tanto trambusto: sono stati rinvenuti i resti smembrati di un cadavere all’interno del ventre di una mucca morta, esposta platealmente in quello che appare essere il palcoscenico di un macabro teatro naturale. Sono ufficialmente iniziate le indagini di un omicidio, destinato ben presto a diventare il primo di una lunga serie.
Coproduzione franco-tedesca per il canale televisivo Arte, l’opera di Bruno Dumont appare fin dai primi minuti come un oggetto difficilmente classificabile, capace di fondere una gran quantità di generi e di influenze eppure di non somigliare a nulla di quanto siamo stati abituati a vedere al Cinema e in TV. Sì, perché se da una parte è vero che non ha più molto senso distinguere prodotti per la sala da quelli concepiti per il salotto di casa, vista la qualità crescente di questi ultimi, è forse necessario riflettere su come le serie televisive stiano con sempre maggiore efficacia cercando una propria dimensione precisa, in un processo che passa per una piena consapevolezza di ciò che si vuol dire e del mezzo che si ha a disposizione (o che si sceglie di sposare) per poterlo fare: ecco allora spiegata la perfetta aderenza dei contenuti alla forma, e la valorizzazione sempre maggiore di quest’ultima. La serialità come estensione naturale del grande schermo, ma anche e soprattutto meccanismo ricco di specificità proprie in grado di rifuggire qualsiasi caratteristica di surrogato cinematografico e di possedere una propria solidissima dignità.
Ed è proprio su queste basi che Dumont plasma la sua creatura, innestando istanze autoriali e necessità espressive in un contesto a lui estraneo, mostrando di comprendere appieno potenzialità e limiti del medium, riuscendo a sfruttarli al massimo al fine di realizzare gli obiettivi prefissati; un’opera che rifugge pedanterie e intellettualismi, pur senza allontanarsi troppo dagli ambiti contenutistici che da sempre caratterizzano il suo cinema. E il risultato, detto francamente, supera ogni possibile (e lecita) aspettativa.
Perché quello di Dumont è un vero e inatteso capolavoro, di forma e di sostanza, che partendo dalle radici della serialità poliziesca mostra fotogramma dopo fotogramma di essere l’unico prodotto in grado di aver assimilato con intelligenza la lezione di Lynch e del suo Twin Peaks: mostrare il Male, nella sua accezione più alta e multiforme, attraverso il filtro del grottesco e dell’assurdo, dello slapstick e del grand-guignol, senza mostrare mai il fianco sotto il profilo dell’intrattenimento puro, riuscendo con apparente facilità a provocare nello spettatore una sguaiata, incontrollabile e inenarrabile ilarità.
Perché si ride fino alle lacrime, senza potersi trattenere, e lo si fa nei momenti paradossalmente più tragici della linea narrativa, quelli in cui il regista sceglie con grande intelligenza di oltrepassare la barriera emotiva e di non appiattirsi sulla piaggeria o sull’inflazionatissima politically correctness. E non esiste approccio migliore per mostrare l’assurdità del reale, l’insensatezza delle azioni e la barbarie pronta a deflagrare in qualsiasi momento di quella bestia che risponde al nome di essere umano.
Non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte ad un’opera di tale spessore e importanza, capace di conficcarsi nella mente e nel cuore di chi ha deciso – magari anche un po’ scetticamente – di abbandonarsi al piacere di una visione lunga duecento minuti. Non capita tutti i giorni di toccare con mano quella vibrante sensazione di aver assistito ad uno spettacolo unico e forse irripetibile. Non capita tutti i giorni di avere la fortuna di imbattersi in P’tit Quinquin. Giù il cappello.