Era il 1978 quando faceva la sua apparizione sugli schermi di tutto il mondo Nel regno di Napoli di Werner Schroeter, storia di un fratello e una sorella lunga 30 anni, dall’immediato dopoguerra fino ai complicati anni Settanta, in cui il regista tedesco, alfiere di quella Nouvelle Vague teutonica che vantava tra le sue file registi del calibro di Herzog, Wenders, Reitz e Fassbinder, sceglie il microcosmo di una famiglia poverissima del capoluogo partenopeo e dei vari personaggi che vi girano intorno come punto di osservazione per narrare la fragile democrazia italiana, ancora incerta tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, tra il sogno capitalista e il potere operaio, eternamente caratterizzata da una ferocia classista che non lascia scampo.
Nel regno di Napoli è un film dimenticato (come il suo autore del resto), sparito dai palinsesti televisivi, sepolto nel mare magnum di film dedicati alla metropoli più antica del mondo occidentale. Non solo è sconosciuto a quelle giovani generazioni che credono che Black Panther sia un capolavoro di cinema militante alla Spike Lee (sigh!) o che Lady Bird sia il prototipo di un cinema indipendente e neo femminista all’avanguardia (ari-sigh!), ma anche ai cinefili di vecchia data cresciuti a pane e Cahiers du Cinema: ed invece vale la pena di rivedere 40 anni dopo Nel regno di Napoli, per il suo fiammeggiante stile da melò eccessivo e stilizzato, per il racconto rapsodico, tumultuoso, con personaggi che entrano e spariscono dalla scena arricchendo di senso un’opera che sembra sempre perdere il proprio baricentro, e miracolosamente ritrovarlo, ma soprattutto per scoprire quanto, a dispetto dei decenni dalla sua realizzazione, sia più attuale che mai.
All’epoca della sua presentazione al Festival di Cannes il film fu molto contestato da una parte della critica, accusato di fornire un ritratto stereotipato, falsamente autentico del capoluogo partenopeo: quello che colpisce oggi è che soprattutto sul versante politico Nel regno di Napoli sembra aver capito tutto. Cambiano i nomi (dei partiti), ma le illusioni, le speranze tradite, la fame atavica di lavoro, i timori legati a corruzione e mafia, l’incapacità della classe politica di farsi carico dei bisogni del popolo, trincerata dietro vuoti slogan e retorica inerte, sembrano usciti, mutatis mutandis, dalle ultime elezioni del 4 marzo scorso. Ed è incredibile come Schroeter, un tedesco oltretutto reduce da un lungo periodo trascorso in Messico, abbia voluto immergersi in Napoli, e come il suo connazionale Goethe qualche secolo prima, lasciarsi travolgere dall’incanto della sua bellezza, dai vicoli e dalle case sgarrupate, dalle mille chiese e dai bambini che giocano per strada ad ogni ora del giorno e della notte, dai suoi splendori e dalle sue miserie, dalle ferite lasciate dalle bombe americane e dalla rapacità degli speculatori edilizi: di tutto ciò vive e vibra Nel regno di Napoli, una storia partenopea che parla dell’Italia tutta, un grande film di stile e sostanza, uno di quelli che ti costringono a tenere gli occhi incollati su uno schermo grande e non su quello piccolo dei nostri telefonini, sempre accesi anche in sala. Vale la pena di riscoprirlo, insieme ad un cast in stato di grazia che comprende Cristina Donadio, Antonio Orlando, Ida Di Benedetto e molti altri talenti del teatro partenopeo che forniscono un’interpretazione volutamente antinaturalistica, straniante, che può lasciare sconcertati ma trasmette un’estrema fascinazione.
40 anni dopo nulla o quasi appare cambiato, rendendo quest’opera di Schroeter una vivida testimonianza dell’urgenza del cinema, della sua irreplicabile malia e della sua capacità performativa, quando sceglie di non farsi piccolo, accomodante, conformista, come accade troppo spesso oggi.