La mostra che riunisce la collezione di Sir William Hamilton alle Gallerie d’Italia a Napoli offre lo spunto per una riflessione sul ruolo del collezionista nella determinazione degli artisti. (N.d.r.)
Diciamo la verità storica, non c’è mostra d’arte contemporanea che non sia la celebrazione del collezionista, senza il quale esisterebbero soltanto artisti di regime e servi funzionali del potere politico.
Il collezionista è uno strumento di democrazia dialettica dell’arte che, almeno in Italia, consente alla ricerca artistica libera di continuare ad esistere, dico questo non nel nome di un riconoscimento che devo al mio principale collezionista Michele Franzese, ma ispirato da una mostra che storicamente l’attesta, quella nella sede delle Gallerie d’Italia di William Hamilton, giunto a Napoli nel 1764 da ambasciatore inglese, la visse per ben trentacinque anni, fino a Dicembre del 1798, una Napoli che allora come oggi, era il principale snodo dell’arte in Occidente. Era la Napoli di Mozart, Winckelmann e Goethe.
La sua collezione è testimonianza di un percorso di vita radicato nel luogo dove ha vissuto: amore per l’antico e l’archeologia, la promozione d’artisti, l’ossessione naturalistica (anche quella antica) per l’eruzione del Vesuvio, il dialogo tra artisti locali e stranieri in uno scenario comune, fino al matrimonio con Emma Lyon che sposò e che venne ritratta dai maggiori pittori europei.
Emblematico il ritratto di Hamilton eseguito da Joshua Reynolds nel 1776, una storia d’amore tra lui e Napoli attestata dal muto dialogo con il Vesuvio sullo sfondo.
Emma, moglie di Hamilton è stata donna dal fascino e seduttività mitologici, è stata la donna più raffigurata del secolo dei lumi, il pittore Romney ebbe con lei una lunga relazione, rappresentandola in ben centoquattordici ritratti tra il 1782 e 1791.
Emma nelle sue esibizioni sceniche assumeva eleganti movenze ispirate a figure d’antichi vasi greci (“attitudes”).
La Napoli dei coniugi Hamilton era come oggi, capitale del Grand Tour nel nome della sua storia della memoria a cielo aperto in tutte le sue stratificazioni secolari.
Sir William e Lady Emma sono stati i personaggi più influenti nella Napoli di fine Settecento, Hamilton era amico di Ferdinando IV con il quale aveva in comune la passione per la caccia e la dimensione del naso.
Finalmente un taglio storico curatoriale che ridimensiona l’ego e la monografia degli artisti. Che lo si voglia o meno, gli artisti sono dei riflessi sensoriali dei loro collezionisti o promotori, senza dei quali la loro immagine e le loro immagini non sarebbero mai state universali sintesi della caducità permanente della condizione umana, ma universalmente limitate ai confini del proprio ego in uno spazio tempo a obsolescenza programmata.
L’unico vero curatore dell’arte e degli artisti è chi, sostenendola, sostiene i medesimi. Affermate il contrario?
Fatemi un esempio uno, d’artista che si è affermato e autodeterminato da solo, io ho un’età che mi consente di fare outing e di dire che senza sostegno da parte di alcuni addetti ai lavori, non mi sarei mai autodeterminato (sempre che l’arte come strumento coscienziale collettivo e connettivo possa autodeterminarsi individualmente): che sia il caso di smettere di raccontare cavolate ipertrofiche d’identità monografiche sul tema?