Avevo un sogno, eterno un giorno, uscire ed ascoltare…un concerto live.
Una cosa normalissima, oserei dire quasi scontata e banale, fino all’attimo prima in cui le nostre vite venissero sconvolte dalla pandemia, prima di quel terribile momento che ci ha visti tutti coinvolti, riuniti e disuniti in camere con vista sui muri del palazzo di fronte, spettatori di una vita fatta di paure e solitudine prima, di rabbia e noia poi.
Quanto abbiamo sognato di tornare a quella che abbiamo sempre considerato normalità? Quante volte io stessa ho desiderato ritrovarmi sotto un palco, magari schiacciata contro le transenne di separazione, in attesa che il cantante di turno salisse sul palco e iniziasse il concerto, portandomi in un mondo parallelo? Quanti di voi, come me, hanno sentito più che mai l’esigenza della musica live, che fosse da nutrimento per il corpo e per la mente? E quanti di voi sono stati, sarebbero e saranno ancora disposti a macinare chilometri per assistere al concerto del vostro musicista preferito?
Ebbene, quel momento per me è finalmente arrivato il 14 ottobre del 2022, quando da Napoli ho raggiunto in auto un bellissimo live club nel cuore di Roma, “L’Asino che Vola”, scelto da Marco Parente come prima tappa del Trasparente Tour, accompagnato da un teatrale, quanto poliedrico Paolo Benvegnù. Non c’è molto da dire, se non che ogni volta mi succede il mondo, senza che sia per forza speciale, perché è già speciale, perché quando Marco Parente è sul palco, pienamente coinvolto nella sua perfomance, si crea una sorta di magia, come se un filo invisibile ci trascinasse tutti sul palco insieme a lui. L’idea di questo tour è riportare in giro l’intero album Trasparente, a vent’anni dalla sua uscita, ma a volerla dire tutta, quella a cui abbiamo assistito non è stata una fedelissima riproduzione dei brani, tutt’altro! Quello che è stato palese è che Marco Parente ha sviscerato completamente l’album, lo ha fatto di nuovo suo, lo ha portato sul palco e ce lo ha fatto vivere come se fosse stata la prima volta in assoluto e vi assicuro che è stata un’esperienza entusiasmante.
È stato un po’ come essere in balia di un mare capriccioso che ti accoglie con dolcezza, sulle note intense e profonde de “La Mia Rivoluzione”, portandoti in volo con “Farfalla Pensante” passando per la toccante “Adam Ha Salvato Molly”. Non è mancata, nel corso della serata, una spinta verso un rock alternativo e una dance nervosa e coinvolgente. Insomma è stato un vero turbinìo di emozioni e sensazioni che Marco Parente e Paolo Benvegnù ci hanno regalato in questa serata, alla fine della quale, dopo quasi due ore dai saluti finali dal palco, Marco ci ha regalato ancora il suo tempo concedendoci una chiacchierata informale sull’uscio del locale, in piedi, appoggiati ad un pianoforte a muro che accoglie i clienti all’ingresso del club
V: Buonasera Marco, intanto grazie per le meravigliose emozioni che ci hai regalato stasera e grazie per il tempo che mi dedicherai in questa chiacchierata. Parto subito con una domanda che mi gira in testa da quando ho pensato che il tuo album “Trasparente” compie ormai vent’anni, per cui ti chiedo quanto sei distante o al contrario, particolarmente vicino al tuo modo di fare musica, rispetto a come lo eri vent’anni fa?
M: Beh, innanzitutto c’è da dire che ho dovuto fare un lavoro di studio vero e proprio perché alcuni pezzi non me li ricordavo. C’erano tanti brani, in questo album, che io non ho quasi mai eseguito, nemmeno all’epoca che sono usciti e quindi per me è stata una riscoperta ritrovare quei meccanismi che mi hanno portato a quelle conclusioni. Ad esempio erano ormai tre anni che non suonavo il piano, ma solo la chitarra, eppure nell’album c’è anche Adam ha salvato Molly, un brano che va fatto necessariamente al piano e che ha uno sviluppo armonico davvero complesso, forse più di qualunque altro abbia mai scritto, fatta eccezione per il pezzo Davvero Trasparente. Lì mi son chiesto come avrei fatto, se sarei stato davvero capace di ricordarlo. In realtà poi, è stato allucinante perché ho messo la tastiera e boom, già dalla prima nota è arrivato tutto a occhi chiusi e questo mi ha fatto pensare che quello che è successo vent’anni fa è rimasto sospeso, anzi ti dirò di più, è stato quasi come uscir fuori da me al punto che mi son chiesto chi è che avesse scritto un pezzo bello come questo e ho pensato davvero “bravo, complimenti”. (ride)
V: E quindi tu adesso sapresti riscrivere un pezzo come Adam ha salvato Molly? Ti senti ancora in sintonia con quel Marco?
M: No, non lo so, si certo. Ci sono delle fasi intermedie di altri dischi nelle quali c’è stata una sorta di compromesso tra me e l’esterno e pur non accettandolo, lo noto. Trasparente è un disco germinale, ogni brano potrebbe sviluppare un disco a parte, intendo proprio come stile. Se ci pensi parte da La Mia Rivoluzione, poi arriva un brano come Fuck (He)art &Let’s Dance o Anima Gemella che sembrano appartenere a un altro mondo poi dopo arriva il jazz, con quelle armonie che piacciono a me in Adam ha salvato Molly e poi Davvero Trasparente che proprio non so da dove arriva. Ho sempre considerato Trasparente non un disco centrato perché era molto eterogeneo però aveva all’interno le cose più avanzate che io abbia mai scritto. E ancora oggi è così. Non ho più scritto un brano che abbia lo sviluppo armonico che ha la strofa di Adam ha salvato Molly. Continua a essere un mistero per me, ci sono delle influenze ma ci sono anche cose che mi sono completamente sfuggite di mano.
V: Mi racconti come è nato il sodalizio con Paolo Benvegnù e come siete riusciti a farlo durare così a lungo? Non vi si può classificare come una band ma come due anime affini che si incontrano e un po’ si scontrano, anche se per lo più si può dire che viaggiate su linee parallele. Sono passati vent’anni dall’uscita dell’album, te lo ha prodotto Manuel Agnelli ma come spieghi la scelta di Paolo piuttosto che quella di Manuel?
M: Perché prima di arrivare a Trasparente c’è stato un bel vissuto con Paolo, l’ho incontrato quando ancora c’erano gli Scisma, eravamo sul lago, stavano facendo Armstrong , ancora non era uscito in verità e andai lì con Cristina Donà. Avevamo ancora l’idea ingenua di creare un cantiere di musicisti che si ritrovavano a fare musica insieme. Io e Paolo ci siamo trovati subito, ci siamo messi in un angolo a parlare e abbiamo isolato tutti. Poi lui ha lasciato la band, è venuto a Firenze, si è innamorato della città e siamo partiti.
V: E quindi è da lì che è nato Proiettili Buoni?
M: No, è nato dopo Trasparente, però in Proiettili Buoni c’era tutto il materiale di prima, intendo prima che io facessi il mio disco e anche se lo ha prodotto Manuel, Paolo è stato fondamentale nella fase di realizzazione, per questo è così importante per me che lui ci sia anche ora, perché nei due anni precedenti abbiamo fatto tanta vita e tante esperienze insieme. Poi ci siamo persi, lui ha iniziato la carriera da solista, ci siamo scazzati ma ce lo siamo detti in faccia. E siamo ancora qui.
V: Stasera sul palco tu hai portato un’anima molto più aggressiva, se mi lasci passare il termine, soprattutto durante la parte elettronica. C’è sempre stata quella parte di te e l’hai tenuta un po’ repressa? Perché ti si vede poco in questa veste, anche quando hai creato il duo Betti Barsantini con Alessandro Fiori, sei sempre stato più cauto nell’approccio con il pubblico come se tu in realtà avessi quasi timore nel mostrare questo aspetto un po’ più selvaggio, forse perché in qualche modo temi di deludere le aspettative di un pubblico che è più abituato al clichè di Marco Parente cantautore, che sta lì sul palco con tutti gli spettatori seduti per terra che ti guardano a bocca aperta.
M: No, tu devi sapere che io sono un punk. Vengo dal punk, quello di concetto e non di cresta, ma sono un punk gentile, come qualcuno mi ha definito tempo fa. È più una sorta di senso di responsabilità che probabilmente arriva da dinamiche familiari, però quando riesco a trovare la situazione giusta sono molto a mio agio in spettacoli come il Diavolaccio. Per questo sono diversi anni che giro da solo. Il mio spettacolo alla Piccola Galleria Resistente di Antonio Conte a Napoli, è forse stata la perfetta sintesi tra il mio lato performativo, il mio lato più selvaggio e più incalzante e quello più posato e poetico. Non ho più una band, faccio tutto da solo e sto benissimo. Ho costruito questo tipo di spettacolo insieme con Lorenzo, che non sta sul palco ma che è una figura fondamentale perché mi permette di essere a mio agio. È una situazione molto teatrale e per esempio, durante l’evento che ho fatto con Manuel Agnelli al Castello Sforzesco, mi sono ritrovato davanti a milleottocento persone che non sapevano nemmeno chi fossi, ero solo, piccolino, in un palco enorme e nonostante tutto mi sono sentito come Totò, quello degli ultimi anni, ricordi? Mi riferisco a quel Totò che era cieco e magari camminando andava a sbattere eppure, quando gli dicevano entra nel set sapeva perfettamente come muoversi. Ecco, io mi sentivo così, completamente a mio agio in un contesto che invece era super quadrato. C’erano tutti quelli perfettini, sistemati, col ciuffino messo bene e io invece ero libero come non mi sento e non mi son sentito per anni suonando con i gruppi. Perché lì subentra un senso di responsabilità, vuoi che le persone che suonano con te stiano bene, che siano contente. Con Life poi ho fatto tutto da solo, ho riscoperto nelle registrazioni anche un aspetto ludico, mi sono divertito e ho capito che potevo fare davvero tutto da solo.
V: La Riproduzione dei Fiori è invece proprio il tuo disco se vogliamo, più accademico.
M: Si, infatti in quel periodo mi ero fissato e volevo essere proprio accademico, avevo bisogno di non immedesimarmi, ma piuttosto di rappresentare semplicemente la musica, quindi ai musicisti dicevo “non voglio il vostro talento, dovete pensare che qui c’è uno spartito e dovete fare semplicemente i musicisti di orchestra”. Che poi non è una cosa semplice da fare ed è anche un concetto difficile da far passare, ma in quel momento lì io avevo bisogno della forma e stop. Ed è qui che mi è stato chiaro che io non potevo amministrare una band perché non avevo quel tipo di libertà che ho quando sono da solo e ho compreso che la mia dimensione era ed è quella solitaria.
V: Tu sei un cantautore di nicchia, il tuo è un pubblico che si può toccare con mano, per così dire. Quanto secondo te dipende dalla sponsorizzazione sbagliata, quanto invece dipende dalla tua non volontà di scendere a compromessi su alcune cose e quanto invece c’entra il tipo di musica che proponi?
M: No le responsabilità sono per lo più mie. È anche vero che non ho mai trovato un manager. Se ci pensi è importante che ci siano delle figure che ti aiutino anche a metterti un po’ in discussione, ne parlavo con Paolo proprio in questi giorni, nessuno mi ha mai messo davanti a situazioni diverse, che ne so, una cosa del tipo “ora devi fare un disco come non lo faresti. Se vogliamo arrivare a certi risultati bisogna che ti impegni a fare le cose diversamente. Che ne pensi? Ti va?”. Ecco. Non è mai successo. Ovviamente questo, da un lato, mi ha permesso di fare le cose che ho fatto e di cui non mi pento assolutamente però se qualcuno mi proponesse qualcosa di diverso io non rifiuterei solo perché così avrei sempre la possibilità di decidere arbitrariamente cosa fare. Anche Sanremo è un Festival a cui mi piacerebbe partecipare e ci andrei con un pezzo di cui sarei convinto e se qualcuno mi dicesse che il pezzo non va bene per questa manifestazione, potrebbe venir fuori l’anima punk che è in me e potrei andare dritto per la mia strada oppure potrei mettermi in discussione e cambiare alcune cose, insomma ci proverei. Se oggi venisse un manager e mi dicesse “Guarda Marco, tu sei forte, però se vogliamo spaccare e avere dei risultati, dobbiamo provare a fare le cose diversamente” Io direi subito si, assolutamente si, ora vado in camera e ci provo immediatamente. (ride ancora)
V. Mi dici com’è adesso il tuo approccio alla musica? Come è cambiato rispetto a quando hai cominciato? Tu scrivi d’amore senza scrivere realmente d’amore e vorrei sapere quanto c’è della tua vita e del tuo vissuto in quello che scrivi, piuttosto che qualcosa che ti è arrivato da fuori. Nessuno sa mai Marco Parente perchè scrive.
M. Ok. Allora, a dirla tutta, nelle canzoni c’è la mia vita, quella è la mia vita. Io sono a disagio con la realtà della vita. L’unico momento in cui io descrivo esattamente la mia vita è quando scrivo quindi è tutto vero. C’è da dire che io continuo a dimenticare e riparto ogni volta da capo. Come con i pesci rossi. Il tempo per me non è scandito nello stesso modo in cui scorre per gli altri . Nella realtà io arranco.
V. Tu sei ancora dell’idea che il mondo può accorgersi che esiste Marco Parente?
M. Non lo so. Non te lo so dire, però posso dirti che lavorerò per questo.
V: C’è qualcosa che vorresti dirmi prima di salutarci?
M. Si, ma non a te in particolare. E’ più un appello: Manager di tutto il mondo, venite a me
Manager di tutto il mondo fermatevi a pensare!!! Se avete voglia di aria buona, di aria nuova, di scoprire e riscoprire la bellezza di un artista che ancora oggi è in continua evoluzione, allora fatevi avanti. Nel frattempo, per coloro che di Marco Parente non conoscessero parole, pensieri e musica, consiglio una full immersion nel suo mondo e vi assicuro che non ve ne pentirete, parola di Valeria Ferronetti!