P. T. Anderson: regista megalomane, dallo stile ridondante, affiliato a preziosismi, narcisismi, manierismi. Spesso vittima della sua stessa voglia di superarsi e di specchiarsi. Più grande dello schermo e della nostra possibilità di abbracciarne la grandiosità progettuale. Freddo, cinico cantore delle pieghe del potere, di “ultimi” con velleità di voler primeggiare ma, infine, ricacciati ad una giusta mediocrità dal loro stesso ego; in ogni caso troppo distanti dalle corde del cuore per appassionare e troppo vicini ad una distorsione della ragione per convincere. Comunque destinati a trascinare la scrittura del film tra le pieghe di un vortice di coerente, disturbante distacco.
Anderson è un artista che, se inizialmente si affida al moderno ricalco della struttura musiva altmaniana – riuscendo ad ottenere risultati certamente pregevoli (Boogie Nights, 1997), poi si dedica al finto ritratto biografico dai tratti anche classicheggianti, ma deformati dall’epica implosa (Il Petroliere, 2007); sempre sfiorando il fragile, non quantificabile, limite dal capolavoro per poi rimbalzare inesorabilmente tra le pieghe dei “se” e dei “ma”.
Non ci nascondiamo perciò dietro ad un paravento: ogni parto andersoniano si trascina una connotazione di curiosità, dubbio, desiderio che mira al compimento, ma teme la frustrazione.
Ed è per questo che Il filo nascosto, ultimissima fatica del nostro, riesce a spiccare il volo, oltrepassare la parete specchiante e prendere la forma del ritratto definitivo dai tratti cartesiani: raccontando parte della vita del sarto Woodcock (Daniel Day-Lewis) nella Londra anni ’50, Anderson utilizza, modella, riformula i tratti di cui sopra, li sfrutta per poi trasformarli nel loro opposto in un continuo gioco di taglia e cuci impreziosito dal ricamo puntuale della ricercata, splendida scrittura cinematografica.
Succede poco – Woodcock, sarto di gran fama, vive ossessivamente la sua vita cucito agli scampoli e alla sorella fino all’incontro con una giovane cameriera che gli sconvolge la vita – ma anche tantissimo. La sceneggiatura è un gioco di sotto-trame e dinamiche di forza che si fanno quadro, autentica opera d’arte, mosse da una causa che è sempre di natura psicologica, non fisica. Forze che portano al movimento, al rallentamento e alla deformazione dei personaggi, dei corpi e delle relazioni, in un tempo che è dannatamente ciclico, ricalcante, senza via di fuga, seppure, in conclusione, di segno opposto. Governato dalla sotterranea necessità dei protagonisti di assoggettarsi a scelte dolorose, ma irresistibili.
E la mdp di Anderson rende questo scorrere circolare e masochistico assettandosi a distanza ravvicina, dettagliando il particolare – sia nella preparazione sia nei corpi che negli oggetti – e cogliendo la presenza della vita, dando sostanza al tempo e peso specifico alle minuzie. Avvalendosi e completandosi con l’immensa prova di Day-Lewis che dà voce anche alle pause e ai silenzi attraverso la complessità di una sottilissima recitazione fisica nella quale gli sguardi pesano come macigni.
Il ritmo è, conseguentemente, ben lontano da ogni strategia iperrealistica o concessione iper-cinetica, ma ottimamente denso e dilatato, sospeso o trattenuto (e quanto, di ciò, riescono a restituire la fotografia, immateriale, elegantissima dello stesso Anderson e l’immensa colonna sonora, ora abbandonata allo stridio dei violini, ora avvolgente e setosa, orchestrale, firmata da Jonny Greenwood?): la tensione è unicamente legata al filo nascosto che lega gli sguardi e alimenta il confronto, mina le certezze, porta a concedere alla fermezza la vitalità necessaria della fragilità all’interno di un monumento della settima arte.
(Phantom Thread, USA, 2017, 130 min.)
Genere: drammatico
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Fotografia: Paul Thomas Anderson
Con: Daniel Day-Lewis, Lesley Manville, Vicky Krieps, Brian Gleeson, Harriet Sansom Harris, Sue Clark, Joan Brown
Montaggio: Dylan Tichenor
Musiche: Jonny Greenwood
Scenografia: Mark Tildesley
Costumi: Mark Bridges
Trucco: Ann Fenton