“Il colibrì” di Sandro Veronesi

Ho comprato Il colibrì di Sandro Veronesi anche perché un gruppo di “intellettuali emergenti” ne ha parlato malissimo sottolineando anafore ed ellissi banali e poi un errore gravissimo (“ometto basso”) oltre che una frase definita in questi termini (la riporto con l’introduzione stessa dell’autore della critica, l’editore Giulio Milani):

“Ogni personaggio risulta così proiettato su un piano oggettivo-descrittivo che lo appiattisce in una caricatura o in una funzione narrativa, da cui non esce mai. Vedi la descrizione di Duccio «dal sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo»”.

Illustrazione di A. Silverini per “La lettura” del Corriere che ha eletto il romanzo di Veronesi “libro dell’anno”.

Chiariamo una cosa: per essere critici letterari bisogna avere studiato molto, cioè avere frequentato un liceo, dopodiché come minimo una facoltà di lettere; dunque la conoscenza delle due tradizioni classiche, latina e greca, la letteratura italiana, quella medievale europea, le altre tradizioni europee, i tedeschi, i russi, i francesi e ancora le Americhe e infine mantecare il tutto con Asia, Africa e quel che c’è di mezzo, più un’infarinatura dei miti di tutto il mondo – mi viene in mente Giuseppe Montesano, noto divoratore di biblioteche intere alla Benedetto Croce . Intendo dire che il libro che si legge, se sei critico, va contestualizzato nella “produzione umana”, non è come i “dipinti industriali” dell’Ikea… Un vero critico letterario si sarebbe divertito a fare un paragone tra il capitolo “Ai mulinelli” e “Il gorgo” di Beppe Fenoglio, perché il primo è la riscrittura del secondo. Lo dice lo stesso Veronesi alla fine del libro, nei “debiti”.

E sul “critico letterario” desidero specificare: puoi anche non avere alcun titolo o magari avere studiato per tutta la vita ingegneria o che so chimica, ma le cose suddette le devi sapere, in più ti devi essere formato sui testi di critica letteraria, sennò si fa la fine di Carlo II di Asburgo, che i suoi “acciacchi genetici” venivano curati con le frattaglie di piccione.

Ora, Veronesi ha una certa età, è del ’59. Ha fatto una gavetta, ha dimostrato di avere avuto “rispetto per il lettore”. Adesso, dico io, se lo può togliere lo sfizio di fare un elenco di prodotti degli anni Settanta o no? Un lettore curioso, si incuriosisce. Da qualche parte sulla bacheca del Milani trovate una recensione che dice:

“Ed è lecito, al lettore frastornato, chiedersi a cosa servono quelle pagine? Forse a un minicorso di architettura d’interni, un Non è mai troppo tardi del Design italiano anni Sessanta–Settanta? Oppure nelle intenzioni di Veronesi, quelle tre pagine, avevano il compito di stendere una patina di realismo, di necessaria concretezza che a causa di altre divagazioni il testo rischiava di smarrire? E, se dopo aver letto della “poltrona sacco”, al solito lettore fosse venuta in mente quella farsesca utilizzata dal Villaggio nazionale nelle vesti bel buon Fracchia di quell’Itaglietta che in tanti rimpiangono persino a sproposito…e dopo quest’immagine si fosse sentito autorizzato alla pratica del canguro, e quindi a saltare, dopo quelle, altre pagine, paragrafi, interi pericoli?”

Caro Veronesi, dica la verità, sta cercando di influenzare il mercato di questa roba, alzare i prezzi, per fare un favore all’antiquario amico suo, ex PCI, quello sotto casa?

La storia dell’oftalmologo Marco Carrera

Un giorno, uno psicanalista si presenta allo studio dell’oftalmologo Marco Carrera e, violando il codice deontologico, racconta al Carrera cosa sua moglie ha in mente di fare.

Sin dal primo capitolo noterete oggetti (… “incastonato nello scaffale insieme al fido amplificatore Marantz e alle due casse in mogano Ar6”… pag. 15). L’osservare un oggetto, soprattutto se vecchio, e ancor più se vecchio e appartenuto a un mondo scomparso e da cui si proviene, è l’attitudine tipica della persona che non vive del tutto il presente o, meglio, una parte di sé è sempre un po’ proiettata verso il passato. Questo è il caso dell’oftalmologo Marco Carrera, un uomo la cui vita è caratterizzata da lunghe sospensioni e rari slanci assoluti, il tutto cucito da fatali coincidenze. Sono gli oggetti che introducono la psicologia del protagonista, come il “fatto in sé” è il miglior modo per descrivere un luogo, né più né meno di come dice l’autore, nel suo magistrale incipit:

Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare del migliore posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante”.

Questo oscillare del quartiere ricorda il volo stesso del colibrì, fermo nell’aria, nei suoi pensieri, nel suo perpetuo rimuginare, osservando gli oggetti vecchi, per evitare quindi di cadere. 

Eleganza e decadenza, lusso e mediocrità, privilegio e ordinarietà… Le prime coordinate per avventurarsi nel matrimonio del dr Carrera con la slovena Marina, una delle storie più strampalate e ben riuscite che io abbia mai letto, mi ha ricordato il miglior Woody Allen. La storia del matrimonio comincia molti anni prima che il dottor Carrera incontri Marina. Da giovane il dr Carrera è stato un giocatore d’azzardo. E va be’, capita nelle migliori famiglie. Il problema è che il dr Carrera andava a giocare nei casinò d’Europa con il suo migliore amico noto per portare iella. C’è la teoria dell’occhio del ciclone, però: se sei nell’occhio del ciclone, il ciclone non ti tocca. In ogni caso Marco Carrera non è superstizioso (e neanche l’autore che sarà sempre ambiguo al riguardo durante tutto il libro e per ovvie esigenze di narrazione, per far sorridere: non ci credo, ma succede). Un giorno però cade un aeroplano e come vedrete leggendo il libro c’entra l’amico che porta iella. Da quel momento il Dr Carrera non lo frequenta più, si allontana dall’occhio del ciclone, sicché gli capita di tutto, a cominciare dalla moglie, che Carrera per la prima volta vede in tv e lì la donna asserisce che lei, hostess, avrebbe dovuto essere su quel volo: per questo lui la cerca e la sposa.

In linea generale questa è la fabula, poi chiaramente tutt’intorno tante altre storie che riguardano il padre del Dr Carrera, la madre, la loro relazione, la sorella morta suicida, le incomprensioni con il fratello Giacomo giacché entrambi sono stati innamorati di Luisa, di molto più piccola di loro quando si sono conosciuti, al mare ovviamente, e con la quale Marco Carrera ha avuto un intenso rapporto epistolare per tutta la vita senza mai concretizzare carnalmente alcunché. Poi c’è la figlia di Marco, Adele, e il suo filo immaginario (la bambina è convinta di avere un filo legato dietro la schiena), che è un po’ come la cotta di Marco per Luisa, un’idea del passato, il suo filo personale che lo tiene legato a un’infanzia in cui tutti sembravano più felici, tutto sembrava più colorato. Infine, la figlia di Adele, Maraijin, e qui tutta un’altra storia che arriva fino in Giappone, ma dovete leggerlo, questo libro, non posso dire troppo, sennò si rovina tutto. Del dottore Marco Carrera ci si innamora da subito, la sua capacità di affrontare la vita con dignità stoica ha un collante, la più totale fiducia nel genere umano; i suoi cedimenti diventano lezioni di vita come quando spiega ai giocatori d’azzardo che lo vogliono rovinare perché si gioca d’azzardo, oppure di fronte alla morte, scegliendo l’eutanasia, vera protagonista degli ultimi capitoli, organizza il suo commiato.   

Veronesi dice nei “debiti” che la descrizione di Duccio – di cui l’editore e critico letterario Giulio Milani ha avuto tanto da ridire ( “Ogni personaggio risulta così proiettato su un piano oggettivo-descrittivo che lo appiattisce in una caricatura o in una funzione narrativa, da cui non esce mai. Vedi la descrizione di Duccio…”) – ebbene non è altro che la prima riga del romanzo La guerra della fine del mondo di Mario Vargas Llosa: “El hombre era alto y tan flaco que parecìa siempre de perfil”…