Il cielo è rosso. Dall’Abissinia al Texas

Il cielo è rosso di Giuseppe Berto – letto in edizione Rizzoli, anno 1974 – racchiude forse alcune delle pagine più belle del secolo scorso, per la precisione le prime tre del quarto capitolo – i quindici capitoli di questo romanzo sono lunghissimi – dove l’autore sintetizza drammaticamente tutte le guerre della storia prendendo spunto dai bombardamenti sulla sua Treviso. Tre pagine dense che terminano così: “…E ognuno di quegli uomini (i piloti dei bombardieri) che ha distrutto case e creature umane può pensare con amore ad altre case e ad altre creature”.

Il 7 aprile del 1944, gli alleati bombardano Treviso, morirono migliaia di persone, Berto è in Texas, in un campo di concentramento, assieme a Dante Troisi, Gaetano Tumiati, Ervardo Fioravanti e Alberto Burri.

Dall’adesione al fascismo alla prigionia

Nel 1935 Giuseppe Berto parte volontario per l’Abissinia, dove combatte per quattro anni; è un fervente patriota e già nel 1929 faceva parte degli Avanguardisti, poi dei Giovani Fascisti e dei Gruppi Universitari Fascisti e infine della Gioventù Italiana del Littorio. Nel 1939 è di nuovo in Italia, si laurea. Nel 1940 l’Italia entra in guerra, lui è insegnante ma abbandona la cattedra per arruolarsi. Nel 1942 è a Misurata, nelle camicie nere, poi finisce nel X Battaglione Camicie Nere “M”, i fedelissimi di Mussolini. Viene fatto prigioniero il 13 maggio del 1943, quindi spedito il campo di concentramento di Hereford, nel Texas, dove ebbe la possibilità di scrivere (mentre nei campi di concentramento nazi-fascisti si lavorava fino alla morte o si finiva nei forni) . Scrisse Il cielo è rosso, in meno di un anno.

Dunque, ci troviamo di fronte a un uomo che non ha semplicemente appoggiato il fascismo, bensì ha combattuto per il fascismo, ha messo a repentaglio la propria vita per il fascismo. Un fascista. Eppure in seguito viene additato dai fascisti come un traditore, nonostante sia stato uno dei primi intellettuali italiani a denunciare il monopolio della cultura da parte della sinistra. Per il resto della sua vita, Giuseppe Berto non farà altro che dividere lettori, critici, far nascere nei suoi lettori e nei suoi critici i sentimenti più contrastanti.

Uno scrittore discusso, discutibile per idee e per stile

Il cielo è rosso viene pubblicato da Leo Longanesi nel 1947 (il titolo è un’idea dell’editore), ed è tra i libri che partecipano alla prima edizione del Premio Strega, vinta poi da Ennio Flaiano. Nel 1948 una giuria qualificatissima composta da Benco, Momigliano, Montale, Palazzeschi e Pancrazi gli conferisce il Premio Letterario Firenze e ne nasce un putiferio. Eugenio Montale, l’enorme Montale, si scusa, asserendo di non avere letto il libro. Gli altri critici si compromisero seriamente, uno dei personaggi del libro tra l’altro, il vecchio insegnante, in maniera molto celata fa capire che certo, noi abbiamo fatto quel che abbiamo fatto, ma gli altri hanno fatto peggio. La politica comunque pare c’entri poco. Berto viene accusato di volere imitare Hemingway, che comunque dieci anni dopo elogerà il libro. I critici dicono che il suo linguaggio è semplice e immediato, forse troppo.

Riguardo al linguaggio, la verità è che il suo modo di scrivere nel romanzo cambia continuamente. Se gli inglesismi (il primo che mi viene in mente è l’orrendo “trovar fuori” traduzione papale papale di “find out”) sono lo spunto per accusare Berto di “americaneggiare”, ebbene, allora, a mio avviso si è fuori strada: quelle sono semplicemente pessime traduzioni, come “perdente” per “loser” quando in realtà in italiano si dovrebbe tradurre “fallito”, e così via. Anzi, se proprio devo essere franco, Hemingway e Berto si assomigliano poco.

Comunque, Berto ha scritto in questo romanzo della pagine bellissime, come quelle già ricordate; ma altre brutte, tanto da non sembrare neanche scritte dallo stesso autore. Risultano a volte ridondanti quanto quelle di uno che si diletta, e sto cercando di essere tenero. E a mio avviso non si può neanche giustificare con il fatto che nel 1947 si scrivesse così, perché nello stesso anno viene dato alle stampe Prologo alle tenebre di Carlo Bernari, che nel 1934 aveva pubblicato Tre operai, che è per davvero, quest’ultimo, un libro stilisticamente molto vicino a Hemingway.

Pare che siano stati i dialoghi a colpire Longanesi o meglio i contenuti messi in bocca a delle bambine… Eppure, i dialoghi di Il cielo è rosso sono brutti, ogni battuta è incorniciata da descrizioni insulse che possono essere anche saltate. Nel 1947 partecipa alla prima edizione dello Strega anche Gino Visentini – oggi introvabile anche in Wikipedia –, con una raccolta di racconti debolissima, Gli occhi indiscreti (si salva solo il racconto che dà il titolo alla raccolta), ma i dialoghi risultano modernissimi, efficacissimi, tanto è vero che il Visentini lo troveremo come sceneggiatore in molti film: tredici anni dopo assieme a Pasolini e Brancati nella scrittura del Bell’Antonio tratto dall’opera dello stesso Vitaliano Brancati.

Immagine dello scrittore Giuseppe Berto
Giuseppe Berto (1914-1978)

Il romanzo della prigionia

Giuseppe Berto come dicevo è a volte ridondante…

“L’uomo aspettò ancora del tempo”, pag 288; “con lo sguardo fisso in qualche posto”, pag. 275. In altre parti Berto scrive in una maniera in cui, come detto, non sembra essere lo stesso autore; ad esempio, nel quarto capitolo: “Come la sera prima, vi era in cielo un pezzo di luna d’argento, corroso dalla parte dove finiva a metà”, pag. 273; “Infine qualcuno venne sul sentiero. E appena sentirono il passo, cominciarono a tremare per la speranza o la paura o solo perché ormai faceva già freddo, e più freddo si sentiva lungo la schiena a sentire quel passo”, pag. 274; “La stanza era piena di un cattivo odore, di sudiciume. Ogni giorno per molte ore, in quella stanza aspettava della gente vestita di cenci sudici, che avevano quel cattivo odore che si sentiva. Quando la gente se ne andava, un poco del loro odore rimaneva nella stanza. Così a poco a poco il cattivo odore della gente miserabile era passato nella panca, nelle pareti, nel pavimento e non andava via”, pag 290.

C’è da dire che siamo nel 1947, la guerra è appena finita, la nuova casa editrice di Longanesi ha fretta di terminare il suo catalogo, i redattori sono costretti a un ritmo di lavoro incredibilmente serrato. Il titolo, come ricordato poc’anzi, non solo è stato scelto dall’editore, ma addirittura l’autore ne viene a conoscenza a cose fatte (il titolo originale era La perduta gente). Quindi è possibile che editore, autore e redattore non abbiano lavorato con attenzione al testo.   

Resta un bel romanzo da leggere, a mio modesto avviso. Non so fino a che punto apprezzabile dai lettori d’oggi che sono tutti “forti e vanno veloci”; ma se esiste ancora qualche lettore che se la prende comoda, probabilmente quest’opera gli piacerà perché ci sono dei luoghi in questo romanzo che fanno venire la pelle d’oca. Come quando Daniele torna in città e trova tutto distrutto, le palazzine dove vivono i suoi genitori rase al suolo, i genitori morti, la bambina Maria che spunta dalle macerie, non parla, è sporca, non si sa da dove venga, si incanta, è incapace di esprimere i suoi sentimenti, è dura, non capisce, ma quando ci arriva a capire le cose le ripete in maniera decisamente non naturale. È la nuova Italia.      

Immagine del quadro di Alberto Burri, SZ1
Sacco SZ1 di Alberto Burri, 1949.