Teatro Nuovo, Udine – Raramente nel teatro di prosa capita di assistere a produzioni tanto sfarzose eppur, nel loro insieme, così equilibrate.
Nella versione de Il Padre di August Strindberg diretta e interpretata da Gabriele Lavia avremmo voluto tributare, già all’apertura del sipario, una standing ovation alle meravigliose scene di
Alessandro Camera: gli interminabili velluti rosso fuoco, intervallati solamente dal nero pece del pesante, sghembo mobilio, sono influenzati sicuramente da un evidente surrealismo psicologico. La loro funzione allegorica, come specchio amplificatore delle psicologie, delle emozioni, di una situazione – compito eccezionalmente assolto anche grazie al perfetto matrimonio con un dettagliato, prezioso, disegno luci che ne esalta riflessi e ombre – si amplifica anche nella dimensione spaziale che estende i volumi di altezza e di ampiezza del palco relegando le figure umane in piccole, insignificanti nicchie, come schiacciate dalla vertiginosa impossibilità nel trovare un baricentro (se non effimero e, spesso, basato sulla menzogna) in se stesse, nella relazione con l’ambiente e con gli altri.
Scene belle per la loro capacità comunicativa, ma anche solo per l’eleganza sopraffina che le caratterizza e che si porta a compimento nell’astrazione del secondo atto, in quella che può essere letta benissimo come una stanza del dolore, dell’allucinazione, della morte.
Sì, perché Il Padre di Strinberg è un dramma psicologico che traduce gli effetti del logorio del tempo sulle relazioni umane in una discesa agli inferi rapida e dolorosissima, senza catarsi alcuna.
Adolf, Capitano di cavalleria ormai appassionato di scienza più che d’armi, si scontra tra le mura domestiche con la moglie per l’educazione da impartire alla figlia. Da una parte il desiderio di farle conoscere il mondo, dall’altra il rigido conservatorismo della schiavitù degli affetti e della tradizione.
Impostazioni sclerotizzate nelle loro posizioni, ancorate ai diktat del desiderio di predominio territoriale su quello che, a questo punto, è solamente l’altro: non vengono risparmiati sotterfugi e, soprattutto, subdole manipolazioni psicologiche che porteranno a tragiche conseguenze.
Gabriele Lavia asseconda il semplicissimo tessuto narrativo con una prova d’attore gigantesca e riempie gli spazi tra il detto, il fatto e il maturato con pause espressive sempre necessarie, sempre colorate, sempre densissime che danno forma e visibilità al turbamento, alla follia. Da superbo regista, inoltre, coreografa i personaggi utilizzando lo spazio teatrale in tutta la sua estensione: se nel primo atto la battaglia si muove su linee orizzontali di attacco e difesa, estendendosi anche oltre i limiti spaziali
(l’intimità data dallo studiolo scientifico è esterna al campo di battaglia e la verità delle cose più care non emerge dal risentito, astioso confronto, ma è chiusa a chiave, conservata immutabile, in pesanti bauli o visibile solamente con un cannocchiale, attraverso uno spettroscopio), nel secondo muove le pedine accerchiando quello che ormai è il corpo estraneo della pièce, il Capitano.
Sostenuto dall’ottima prova di Federica Di Martino nel ruolo diabolico della moglie e da musiche che creano un angoscioso substrato, Lavia regala così, al pubblico, un superbo momento di grande Teatro.
IL PADRE
di Johan August Strindberg
con Gabriele Lavia, Federica Di Martino
e con Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Pedron
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Michelangelo Vitullo
regista assistente Simone Faloppa
regia Gabriele Lavia
scenografo assistente Andrea Gregori
suggeritore Sebastiano Spada
produzione Fondazione Teatro della Toscana
ritratti e foto di scena Tommaso Le Pera
Lo spettacolo ha una durata di 165 minuti circa, intervallo compreso.