Fones, lasciamo andare le voci

Dal greco Fones vuol dire suoni voci. E a Napoli, noi, siamo gli ultimi greci sopravvissuti perché stiamo qua sempre a raccontarci storie, ai tavolini di un bar come degli anziani signori, in fila dal medico con il numerino in mano. Restiamo in coda alla posta solo per sentirci parlare addosso e dentro e sulla pelle, quella stessa pelle che Francesca Muoio e Luca Trezza hanno portato in scena domenica sera al teatro Bolivar di Napoli.

Una pelle, quella che all’inizio vediamo sul palco di spalle e che non riconosciamo, fatta di crepe, di paure, di ferite che ci portiamo dietro, che possiamo leccarci tra noi, come animali, nell’unico modo che ci permette di essere vivi, parlando.
Il racconto ci rende quello che siamo, il racconto di noi stessi e del coraggio che abbiamo avuto per essere qui e ora, il racconto di chi non è più con noi e che ci ha lasciato, qualche volta troppo presto e resti a contare i giorni, e poi i mesi e gli anni. E ci vuole coraggio a raccontare chi non c’è perché vive nelle piccole cose, nelle mani che sono un po’ le tue e nella faccia che cambia, nelle rughe che vengono.

Crepe e ferite che pungolano, questo raccontano Luca e Francesca.
Fones sono i suoni che buttiamo fuori. I due attori e autori si presentano di spalle in un teatro vuoto, solo piccole isole di vestiti a corredo della scena. Abiti tutti diversi che diventeranno nel corso dello spettacolo la pelle e la voce dei personaggi che interpretano, delle vite che vivono, delle persone che raccontano.
Fones, esistenze comuni, banali, quotidiane alle prese con i grandi misteri che ci portiamo dentro, l’amore, la morte, la cattiveria e la meraviglia. Sono schegge impazzite, prese di posizione, Fones in napoletano è “na cosa ca te capita campann’, o forse ca tenimmo già primm’ e nascere nascenn“. È la nostra reazione a tutto questo, andiamo, prendiamo questi vestiti e portiamoli in giro, come gabbiani, come rondini, come dei canarini gialli. Il racconto come forma di resistenza culturale, molliche di pane, ogni pezzo di storia, che alimentano la vita. Storie d’amore, di bimbi mai nati o nati troppo presto.

Lenzuola che coprono corpi che tradiscono e bramano, che vivono. Quale storia si nasconderà dietro quel velo? Forse un matrimonio finito male, l’immaginazione è potente, è letale, è paura che assale. Ma la crepa che brucia è anche passaggio di luce, spiraglio di sole, come suggerisce Luca.
Fones è voce, suono e di suoni e lo spettacolo è ricco. Peppino, Ornella, Patty, parole neomelodiche. La musica racconta, i corpi si muovono e sudano e danzano. Si amano in scena, è tutta una danza di mani che si toccano, si sfiorano, si cercano, cuori mandati, trovati, perduti.

E quello che inizia di spalle alla fine riconosciamo come parte di noi. Vediamo negli occhi Francesca e Luca, anziani, uomini e donne, giovani in cerca di fortuna, animali e atteggiati, bella sostanza ed eterea presenza. Loro, noi. Mille storie per conoscersi e per conoscerci.
Fones, lasciamo andare le voci, siamo ciò che raccontiamo.

Nu sturbo, na distorsione, n’erosione, na ferita“.