Dogman, la recensione del film di Matteo Garrone

Ci sono voluti dodici anni per arrivare al Dogman mostrato al Festival di Cannes e presente in questi giorni nelle sale italiane, avvicinamenti progressivi e fughe verso qualcos’altro, qualcosa di meno cattivo rispetto alla stesura iniziale della sceneggiatura che si rifaceva molto più fedelmente alla vicenda del canaro della Magliana e nella quale erano presenti diverse concessioni ai passaggi più cruenti del terribile caso di cronaca nera degli anni Ottanta. E, a conti fatti, allontanarsi da quella cattiveria è stato un bene, perché alla fine ne è uscito fuori un film pieno di tenerezza, che asciuga il tessuto filmico e lo priva di qualsiasi vezzo estetizzante sino a ridurlo all’essenzialità, alla sola struttura privata di tutti quegli elementi che potrebbero deviare o distorcere la percezione spettatoriale (sequenze morbose, gratuitamente violente o peggio ancora retoriche). Essenzialità dietro alla quale si cela la mano di un regista maturo, perfettamente consapevole dell’importanza rivestita dal controllo formale e teso verso una costruzione scevra di moralismi e retorica, che agisce per costante sottrazione e scarnifica la realtà trasfigurandola in clamoroso gesto filmico.

Chi conosce un po’ la filmografia di Matteo Garrone sa bene che non è la prima volta che il regista utilizza un evento di cronaca come base di un film per poi dipanare il racconto e aprire la struttura extradiegetica verso altre direzioni. Garrone lo fa sempre creando un mondo surreale, perché oggettivizza la storia di partenza e inserisce all’interno della finzione dati minuziosamente reali, creando delle interconnessioni significanti attraverso il contrasto innescato dal montaggio e dalla giustapposizione delle immagini. Cos’altro sono i suoi film – almeno da L’imbalsamatore in avanti, vero e proprio spartiacque all’interno del percorso autoriale – se non una serie di variazioni sulla stupidità, le vacuità passionali e istintuali degli uomini? Spesso a trionfare sono la sensibilità e l’intelligenza femminili a dispetto di un mondo dominato da maschi ossessionati solo da bisogni primari, feticistici o irraggiungibili.

In Dogman il primo scarto rispetto al passato è rappresentato dalla mancanza di una figura femminile forte, essendo ambientato in una società minuscola in cui sembrano esistere solo gli uomini. Col suo volto dai tratti irregolari, la strana parlata marcata dal dialetto e la fisicità minuta che abita lo spazio assieme alla sua gigantesca nemesi, il protagonista Marcello porta un altro elemento di novità: è profondamente ingenuo, di cuore puro e, a differenza del Luciano di Reality, non è ancora vittima dell’edonismo dell’era televisiva. Tratti che risultano consonanti con le immagini, filmate nei luoghi de L’imbalsamatore, a Castel Volturno, luogo in cui Garrone, affascinato dall’architettura sghemba che permea l’epicentro della narrazione, costruisce gli spazi concentricamente attorno al negozio di toelettatura del protagonista, dando l’impressione di un mondo chiuso e fuori dal tempo e dalla Storia. Uno spazio abitativo composto da negozi di compro oro e sale slot, inquadrate obliquamente e desaturate dei colori, quasi fossero delle vere e proprie caverne preistoriche, all’interno delle quali si muove un’umanità disumana, ignorante, passivamente piegata alla logica del più forte e paradigmaticamente vicina al grado zero di civiltà.

Marcello non distingue il bene dal male, conosce solo l’arte di sopravvivere e, pur vivendo in una realtà periferica, non conosce la brutalità degli adulti, dato che la sua ingenuità sembra catapultarlo in un mondo personale quasi fiabesco, popolato dall’amore per i cani e per la figlioletta Alida. La presenza dei cani nel film introduce un dettaglio di realismo estremo, assieme alle due riprese subacquee, inserite in due momenti chiave della narrazione: elementi – l’allevamento degli animali e le escursioni in mare – che sembrano avere per Marcello una funzione di evasione dalla brutalità del microcosmo che lo circonda, con il secondo elemento che funge anche da dettaglio poetico tra le immagini e richiama esplicitamente la necessità di cercare la pace sotto l’orizzonte terreno e mai nello spazio plumbeo della superficie.

Dogman potrebbe essere diviso in due parti, con la lunga ellissi tra prima e dopo il carcere. Si ricordi che Garrone è un autore in senso totale – regista, sceneggiatore e finanche macchinista – e che il découpage dei suoi film è indicativo di una notevole coscienza registica: per valutarne il rigore, basti pensare alla prima parte del film, e in particolare alla scena ambientata in una discoteca di quart’ordine, che con quei rossi sullo sfondo introduce un tono di apertura/chiusura all’interno delle immagini: un regista meno avveduto e consapevole dei propri mezzi non avrebbe risparmiato preziosismi e inquadrature estetizzanti, per esempio sui corpi delle lap dancers, approfittando dei neon e dell’ambientazione naturalmente predisposta all’autocompiacimento formale. Garrone, che ama i suoi personaggi e sa che ogni movimento della mdp deve avere una correlazione con quanto viene narrato, risolve l’intera sequenza stringendo intorno ai volti, perché l’introduzione di un luogo nuovo nella narrazione, in un film costruito su pochissimi ambienti, rappresenta l’ennesima tappa nello sviluppo del protagonista, che prova la cocaina forse per la prima volta nella sua vita, non opponendo resistenza all’insistenza di Simoncino al fine di compiacerlo.

La seconda parte, invece, vede una cinepresa più mobile, privilegia la famigerata macchina a mano che diventa un tutt’uno col personaggio principale, pedinandolo continuamente, garantendo anche un effetto di suspense e di asfissiante inquietudine dato che l’atto di vedere passa sempre attraverso gli occhi di Marcello, che è il protagonista di tutte le inquadrature: sia perché per Garrone è un personaggio affascinante, che ragiona con schemi mentali imprevedibili e a noi ignoti, sia perché non sappiamo come, dopo il carcere e la vicenda di cui si è fatto carico, reagiranno gli altri personaggi che popolano il villaggio di frontiera, posizionato ai margini del litorale romano eppure idealmente sospeso in uno spaziotempo immaginifico, a tutti gli effetti non luogo ontologico.

Altri elementi ricorrenti nella filmografia di questo autore sono i rapporti duali all’insegna della dominazione (si veda L’imbalsamatore appunto, ma anche e soprattutto Gomorra e Il racconto dei racconti), ma qui le dialettiche vengono rovesciate e assumono significati altri: vendetta involontaria e voglia di accettazione, quest’ultima anche al centro dell’intreccio di Primo amore. Leggendo lo sviluppo della sinossi, Dogman sembra un banale film di vendetta che punta tutto sulla rivalsa del protagonista, ultimo tra gli ultimi e oppresso tra gli oppressi. E invece il suo autore adotta un registro totalmente diverso, traslando di centottanta gradi gli esiti della costruzione cinematografica: la vendetta viene compiuta quasi inconsapevolmente, non come riscatto personale ma come mezzo attraverso il quale affermare il desiderio di tornare a esser parte di una società che ha escluso il protagonista, quella stessa società che è incapace di prendere decisioni, impossibilitata a svilupparsi e a procedere in avanti perché atrofizzata moralmente e culturalmente, e che solo l’emarginato, lo scemo del villaggio riuscirà a portare a una svolta. E il fatto che lo spettatore stia continuamente dalla parte di Marcello, nonostante un percorso affastellato di contraddizioni morali, conferma l’originalità di un film che non segue facili soluzioni, capace di sigillare nella splendida sequenza finale, con un primo piano che poteva durare anche in eterno, così bello nel suo sembrare improvvisato e con quelle sublimi aperture dell’immagine ai lati del quadro, il film di un autore sempre imprevedibile e al tempo stesso fedele al proprio stile e, proprio per questo, imprescindibile nell’attuale panorama cinematografico europeo.

Voto (da 1 a 5): ★★★★★