“Se ti fanno osservare: in quel che lei ha scritto c’è un errore”, tu rispondi: “Ciò che scrivo dà sempre questa impressione.”
C’è uno scrittore in tutta la storia della letteratura in grado di sconvolgere le nostre idee sulla scrittura, di mettere in dubbio le regole basilari e quindi di turbarci; questo è un invito a calarsi nelle sue storie, nei suoi stralunati intrecci, nelle sue situazioni surreali…ma con un taglio sul viso che assomiglia a un sorriso. Questo scrittore è Daniil Charms.
I profili letterari trovati in giro e riguardanti Charms lasciano tutti parzialmente insoddisfatti. Forse perché qualcosa di misterioso sembra ancora celare eventi e fatti della vita di questo scrittore russo. Una nebbia che si dirada soltanto immergendosi nella lettura di Casi, la raccolta pubblicata da Adelphi, che raggruppa tutti gli scritti che egli disseminò in quaderni e che mai si tramutarono in altrettante opere.
Nato a Pietroburgo nel 1905, nei sui 37 anni di vita, prima di finire, nel 1942, nell’Ospedale psichiatrico che lo portò via al mondo, e per certi versi alla storia, Charms aveva scritto e pubblicato storie per infanti, per le quali era diventato discretamente noto. Pare rappresentassero per lui soltanto un modo per sbarcare il lunario e tenersi in allenamento. Amore per l’infanzia non ne aveva.
Il 24 gennaio 1928, a Leningrado, fu un grande giorno per lui: in questa data venne infatti messa in scena – prima e unica – la sua opera teatrale Elizaveta Bam, vero e proprio manifesto del surrealismo e dello sperimentalismo, a cui egli da poeta avanguardista aveva aderito. Ebbe, su questa strada, vari compagni di sventura: tra di loro ricordiamo, in particolare, Aleksandr Vvedenskij.
Si unì all’avanguardia e ne visse fino in fondo la scomodità
Poeta sperimentale e scrittore dell’assurdo, uscire dalle favole gli portò male: non nuovo alla prigione, nel 1937 fu la volta buona. Vittima della grande ondata di epurazioni, probabilmente a causa della pubblicazione di un componimento intitolato “Un uomo uscì di casa…”, in cui si parla di uno che esce di casa senza fare più ritorno… Qui il gioco del surreale e del non-sense trova un compimento nel tragico reale: quest’uomo che scompare d’un colpo, è in verità vittima di un destino crudele, quello, fatto di fame e di stenti, che lo stato totalitario riserva ai cittadini refrattari alla morale comune.
In Casi troviamo le storielle comiche e crudeli, in cui l’autore sembra espiantarsi il cuore per darlo in pasto a una macchina creativa balbettante e impazzita. Vi troviamo la satira (Puškin è uno dei suoi bersagli preferiti). Troviamo altresì la rilettura diaristica del proprio destino di artista nel terrificante ventennio russo che precede la guerra. Troviamo infine i tentativi – che proprio dai diari sappiamo tormentosi – di innescare degli intrecci, degli abbozzi di racconti più lunghi, anch’essi frutto di una poetica nuova e rivoluzionaria.
In una progressione immobile vediamo omini che si dissolvono nei loro abiti, avvenimenti che non accadono e tutta quell’infrangere schemi che sembra tornare a momenti, dopo recente riscoperta (circa una ventina d’anni, o poco più). Si è infine rivelato più influente che famoso.
Il lettore stesso potrà rendersene conto. Colui invece che ne sente per la prima volta il nome, è invitato a scoprirne a sua volta gli scritti, e i “casi amari” della vita di uno scrittore d’avanguardia nell’era staliniana.
“C’è al mondo qualcosa che abbia senso e che possa addirittura cambiare il corso degli eventi non solo sulla terra ma anche in altri mondi?” chiesi al mio maestro.
“C’è” mi rispose il mio maestro.
“E che cos’è?” chiesi.
“E’…” cominciò il mio maestro, e di colpo tacque.
Rimasi con ansia e in attesa della sua risposta. Ma lui taceva.
E io stavo lì e tacevo.
E lui taceva.
E io stavo lì e tacevo.
E lui taceva.
Stiamo tutti e due qui e tacciamo.
O-là-là!
Stiamo tutti e due qui e tacciamo.
E-là-là!
Sì, sì stiamo tutti e due qui e tacciamo!
(16-17 luglio 1937)