ABCinema | I fratelli Dardenne e la loro scommessa. L’Enfant

Nel 2005 Jean-Pierre e Luc Dardenne vinsero la Palma d’oro a Cannes, con il film L’Enfant. Qualche mese dopo presso la Cineteca di Bologna, incontrando il pubblico, presentarono qualcosa di più di un film: la loro idea di cinema, la loro scommessa. Fu un’anteprima per l’Italia, dal momento che il film uscì nelle sale da lì a poco, con questo sottotitolo: “Una storia d’amore”. Parve subito chiaro che la filmografia di Jean-Pierre e Luc, per le problematiche che tocca e per l’approccio, avrebbe meritato la possibilità di coinvolgere una platea quanto più ampia possibile. Più che attuale la loro visione è morale e critica, senza pedanterie o ridondanze, finendo per rappresentare un modello di cinema sociale che non si arrende ai dettami del classico “cinema-verità”.
La loro è sempre una prospettiva sociale che dà l’impronta ad ogni aspetto estetico e narrativo. Questa coerenza fa di ogni loro film un tassello dello stesso mosaico.

Quell’incontro incontro rivelatore con il pubblico

E così i due schivi fratelli belgi si sono arresi, più o meno di buon grado, all’idea di portare la Palma d’oro in giro per l’Europa. La mini-tournée dei due nel nostro paese fece dunque tappa a Bologna, dove dallo scambio con il pubblico vennero comunque alcune importanti conferme.

Per quanto riguarda le possibili rispondenze della loro intera opera a questa o a quella scuola, sono venuti dal pubblico accostamenti vari: con Robert Bresson (per la verità non nuovo, né così peregrino), ma anche con Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard e con la nouvelle vague.

Per non soccombere alla pioggia citazionista i due ebbero modo di ribadire – avvalendosi di qualche simpatico aneddoto – come al momento di girare non ci fosse proposito di imitare alcuno. Citando Pasolini, poi, e la sua “incomprensione” della nouvelle vague, così urbana, cinica, “indifferente al corpo”, hanno ristabilito la distanza tra sé e gli autori di quella stagione.

Alla loro maniera

Si rintracciano in L’Enfant la capacità – già vista nel precedente Le fils (“Il figlio”, 2002) – di generare suspense, e la cura del dettaglio, in una accezione non esattamente hitchcockiana, intendendosi piuttosto l’attenzione per il gesto, nella quotidiana interazione con la realtà dei personaggi.

Anche su questi ultimi punti sono venuti delle importanti conferme. Il casting risulta essere un momento fondamentale del percorso produttivo. Tanto importante che nessuna società specializzata è chiamata in causa; vi sono lunghi provini durante i quali, in una fase più avanzata, i candidati sono diretti dai registi in situazioni simili a quelle del film.

Una volta scelti i due protagonisti (Jerémie Renier, Bruno, e Deborah François, Sonia), il discorso non cambia: le scene sono ripetute più volte, soprattutto, quelle lunghe e realistiche in cui vediamo gli attori compiere gesti apparentemente senza alcun significato. In realtà, questo serve a perseguire quel senso del vero che fa del cinema dei Dardenne non una mimesi del reale, ma un “cinema vivente”, come essi stessi lo hanno definito. L’eliminazione del montaggio è, in alcuni passaggi cruciali, fondamentale per comunicarcene nella durata la drammaticità: sia la scena della restituzione del neonato a Bruno nel garage, con quest’ultimo sospeso ad ascoltare soltanto rumori, sia quella della fuga di Bruno e Steve dopo lo scippo, sono rese con interminabili sequenze che accrescono in noi la partecipazione agli eventi. Si tratta di trucchi cinematografici che i due hanno imparato alla perfezione e che accrescono lo spessore della loro opera.

Avendo iniziato come documentaristi militanti negli anni ’70 (nei centri operai della Wallonie in Belgio), i Dardenne hanno compiuto un percorso che li ha portati a un cinema di finzione che apre una terza via tra i concetti di “pedinamento zavattiniano” e formalismo. La messa in scena ha per loro una grande importanza (finanche la scelta dei vestiti).

I fratelli Dardenne ricevono il premio FIAF al Teatro comunale di Bologna (2016, fonte: Wikimedia Commons).

Via via lo sperimentalismo iniziale sembra essersi in qualche modo smussato a favore dell’intreccio e dei suoi meccanismi. Alcuni elementi comunque restano legati a scelte per molti versi estreme, come, ad esempio, la totale assenza di musica (“perché non gli abbiamo trovato posto per ora…”, ebbe a dire Luc).
Anche al tempo della loro prima Palma d’oro, con Rosetta (1999), i Dardenne erano riusciti a rivelare la formidabile capacità di sostituire ai canoni del cinema d’indagine (docudrama o di fiction che fosse) l’affascinate osmosi tra la storia di corpi in movimento e realtà, senza che il background storico venisse chiamato apertamente in causa. Anche in Rosetta avevamo, tra un gard rail e il greto di un fiume, una storia di emarginazione nell’anonima periferia di una ancor più anonima città del nord; ma con L’Enfant, passando per la tragica esperienza raccontata ne Il figlio, i registi sembrano aver acquisito una proprietà di linguaggio piena e fondata su una loro maniera.