Mektoub, My Love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche.
Amin, un aspirante sceneggiatore che vive a Parigi, ritorna per l’estate nella sua città natale, una comunità di pescatori del sud della Francia, occasione per ritrovare la famiglia e gli amici d’infanzia. Accompagnato da suo cugino Tony e dalla sua amica Ophelie, Amin passa il suo tempo tra il ristorante di specialità tunisine dei suoi genitori, i bar del quartiere e la spiaggia frequentata dalle ragazze in vacanza. Incantato dalle numerose figure femminili che lo circondano, Amin resta soggiogato da queste sirene estive, all’opposto del cugino che si getta nell’euforia dei corpi. Munito della sua macchina fotografica e guidato dalla luce della costa Mediterranea, Amin porta avanti la sua ricerca filosofica lanciandosi nella scrittura di sceneggiature e nei progetti fotografici ad esse collegati. Ma quando arriva il tempo dell’amore, solo il destino può decidere.
Quello che Abdellatif Kechiche fa da sempre è mostrare con impareggiabile fluidità lo scorrere della vita, il fluire del tempo e delle emozioni, costruendo la sua ricerca sui corpi e sulla carne, sulla strabordante vitalità della giovinezza e sull’energia che da essi si propaga, all’interno e all’esterno dell’inquadratura, dentro e fuori dal campo. Loro, i protagonisti, e noi, il pubblico, mai così vicini.
Ed è forse per l’abbondanza di carne e per la sovraesposizione di corpi che buona parte della critica accusa il regista franco-tunisino di maschilismo, rinfacciandogli di non mostrare mai quello che l’altra metà del cielo – le donne – vorrebbero vedere, quella controparte che in un’ipotetica operazione di bilanciamento dovrebbe compensare l’oggetto di uno sguardo ad uso e consumo esclusivo del maschio.
L’impressione è che, come spesso accade, sia molto più comodo guardare il dito e non la luna, confondendo il meccanismo del mostrare con quello assai meno impegnativo del vedere: perchè sì, anche in questo Mektoub, My Love: Canto Uno Kechiche non ci risparmia un infinità di dettagli sulle generose forme delle protagoniste femminili, di close-up su sederi o seni al vento. Ma quello che probabilmente si dimentica è che la trasfigurazione registica viene operata sul protagonista maschile, che ha meno di vent’anni e che in maniera assolutamente comune si avvicina alla vita, alla scoperta della proprie voglie e della sessualità, primo traguardo di un lungo percorso che tutti – proprio tutti – prima o dopo fanno nel corso della giovinezza, senza per questo essere dei viscidi maschilisti. Ecco allora che uno sguardo che in altri contesti sarebbe potuto apparire morboso non solo diventa importante, ma persino necessario: le emozioni, i respiri e i batticuori di Amin (e i nostri, in una miracolosa operazione di transfert cinematografico) passano anche da lì, e il vero delitto sarebbe quello della censura o dell’autocondizionamento, termini che per fortuna l’autore mostra di non prendere mai in considerazione nel proprio processo creativo.
Un lavoro incredibile quello di Kechiche, fatto di ripetizioni e di estrema naturalezza nella costruzione della scena, in cui tutto sembra avvenire per caso e che invece è meticolosamente studiato e scritto da un regista che, anche grazie all’apporto di un montaggio effettuato su un girato (prevedibilmente) fluviale, regala al film un respiro e un passo ineguagliabili.
Ed è sulla dialettica tra immagini e parole che viene costruita quest’opera straordinaria, capace di raccontare le pulsioni giovanili e le reticenze di un intelletto ancora profondamente idealista e immaturo, e di come queste due anime opposte intrappolino e frenino il protagonista, ingabbiato e incapace di esprimersi pienamente, sospeso tra la voglia di carne e il desiderio di non somigliare troppo ai coetanei, desiderosi di esperienze imposte dalla giovane età e da un carattere decisamente poco introverso.
Vedere del machismo (?) e non vedere quello che solo Abdellatif Kechiche riesce a mostrare con incontenibile potenza ed efficacia significa non solamente fare un torto al cinema, ma anche e soprattutto a se stessi: perchè se non si riesce a immergersi completamente nell’universo del film, che è anche l’universo della nostra esistenza, significa forse che il dito ha definitivamente coperto l’occhio e che la luna è ormai irrimediabilmente nascosta, nonostante brilli di una luce strabiliante.
Più che un Leone d’Oro servirebbe un Leone alla carriera, perché la gara, quando si inseriscono in Concorso calibri di questa portata, non esiste più.