Con la chiusura ufficiale del concorso, arriva anche l’ultimo dei film italiani presenti in gara: Hannah, con la sorniona Charlotte Rampling.
Nato e cresciuto a Trento, ma da anni trasferitosi a Los Angeles, il regista del film, Andrea Pallaoro alla Mostra già ci era stato quattro anni fa con il suo debutto, Medeas, passato a Orizzonti, ma questa volta l’attesa è diversa.
Hannah è il ritratto intimo di una donna che perde la propria identità e da quel momento non riesce più ad accettare la realtà che la circonda. Rimasta sola, alle prese con le conseguenze dell’arresto del marito, Hannah inizia a sgretolarsi, a crollare, assieme al suo piccolo mondo sussurrato. Attraverso l’esplorazione del suo graduale crollo emotivo e psicologico, il film indaga il confine delicato tra l’identità del singolo, le relazioni umane e le pressioni sociali.
Con questo film, il regista vuole che lo spettatore si senta vicino ad Hannah, tenga la sua mano, la incoraggi, rassicuri. Più di ogni altra cosa, il desiderio registico è che il mondo la veda, percepisca il suo dolore e assista al suo sforzo di ridefinirsi, da sola, prima di scomparire. È questa la catarsi a cui aspira: dare allo spettatore l’opportunità di riconoscersi, e magari di capire qualcosa in più di sé stesso.
La balena spiaggiata che verso la fine appare nel film non è solo una metafora: infatti più che simboleggiare, evoca. È il riflesso di qualcosa che sta per morire, o forse è già morto. Eppure, nonostante il mondo intorno a lei ne parli, anche quando infine la vede con i propri occhi, non siamo mai certi se Hannah si riconosca nella balena, se quella consapevolezza le appartenga davvero: d’altronde, la risposta all’arresto del marito è un crollo emotivo e psicologico il cui effetto è proprio la perdita di ogni consapevolezza, l’avvilupparsi in una spirale in cui la vediamo barcollare, e poi scivolare, fino a non riconoscersi più, fino a perdere la propria identità.
Pallaoro non “esplicita” il reato di cui è accusato il marito di Hannah, perché non vuole che si distolga l’attenzione dal cuore del film: il suo allontanamento, l’arresto, sono infatti il catalizzatore che costringe Hannah a fare i conti con sé stessa. Fondamentale che si percepisca la gravità dell’accusa, ma è altrettanto importante che il centro del racconto resti il mondo interiore della protagonista, il suo disorientamento e la sua disperazione, senza la distrazione fuorviante che una maggiore attenzione al reato avrebbe portato con sé.
Tendenzialmente un film silenzioso e quasi scevro di dialoghi “parlati”, ma con la continua ricerca di riflettere il dialogo costante che c’è tra Hannah e il mondo circostante, prestando molta attenzione al concetto stesso di spazio, in un gioco dialettico tra interno ed esterno, fisico e psicologico, dove elementi come i corridoi e gli specchi – e soprattutto il fuoricampo – acquistano un ruolo fondamentale.
Hannah esplora il tormento interiore di una donna che non vuole accettare la realtà, intrappolata nel suo senso di lealtà e devozione, paralizzata da insicurezze e dipendenze. La disperazione di Hannah tocca profondamente lo spettatore, forse perché ognuno è consapevole di quanto il mondo possa essere spietato nei propri confronti, o forse perché si riconoscono in lei alcune parti di se stessi.
Una pellicola che principalmente interroga, non dà risposte ma pone domande.
Andrea Pallaoro – Hannah
Venezia 74
Italia, Belgio, Francia / 95′
lingua Francese
cast Charlotte Rampling, André Wilms
sceneggiatura Andrea Pallaoro, Orlando Tirado
fotografia Chayse Irvin
montaggio Paola Freddi
scenografia Marianna Sciveres
costumi Jackye Fauconnier
musica Michelino Bisceglia
suono Guilhem Donzel