Yorgos Lanthimos e la libertà (im)possibile

In un’epoca in cui il dibattito culturale intorno alla fu settima arte latita, il cinema di Yorgos Lanthimos rappresenta uno dei pochi terreni di scontro critico ancora vivido e fertile di riflessioni sul linguaggio. Accusato di essere algido e crudele dai suoi detrattori, un giudizio appena mitigato dagli ultimi exploit internazionali solo apparentemente più “leggeri”, Yorgos Lanthimos vive un periodo di grazia in virtù del successo di Povere Creature!, che ha conquistato tra l’altro il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2023 e 4 premi Oscar oltre che un inaspettato successo al box office, e con la fresca uscita in sala di Kinds of Kindness a pochi mesi di distanza dopo il passaggio al Festival di Cannes, che ha fruttato a Jesse Plemons il premio come miglior attore. Lecito è l’interrogativo: qual è il segreto di un regista considerato da taluni una semplice moda, ma che in realtà da circa 20 anni continua a stupire, irritare, esaltare e sconvolgere le platee cinematografiche internazionali?

Un cinema solo apparentemente disumano

Pur comprendendo il sentimento di repulsione che può suscitare il cineasta greco sin dai tempi del suo primo film Kinetta, in queste sede riteniamo che Yorgos Lanthimos sia differente rispetto a provocatori e teorici della crudeltà che hanno affollato nelle ultime decadi il cinema d’autore proveniente dalle più disparate latitudini, soprattutto in ambito festivaliero. Nel suo sguardo registico che in prima istanza appare cinico, impassibile, emerge la verità di sentimenti autenticamente umani celati dietro ad azioni quelle sì spesso abiette e meschine, ma purtroppo terribilmente reali: pensiamo ai genitori di Dogtooth, il capolavoro di Lanthimos ed anche la sua opera divisiva per antonomasia, in cui scorgiamo il bisogno di proteggere i figli dal mondo esterno ed anche quell’istintivo egoismo che molto spesso le madri e i padri proiettano sulla propria progenie. O il sempiterno tema dell’elaborazione del lutto e la conseguente difficoltà a lasciare andare chi abbiamo perduto che connota il successivo Alps.

A ben vedere c’è un filo rosso che collega tutte le opere di Lanthimos, ed è la sostanziale impossibilità di essere liberi, rimanendo intrappolati dentro un sistema di regole codificate e prestabilite, un universo simbolico che il regista, spesso in coppia con il sodale sceneggiatore Efthymis Filippou, costruisce al millimetro sulla falsariga della poetica di Franz Kafka. Soprattutto i film girati in patria rivelano una struttura narrativa complessa in cui lo spettatore all’inizio si sente perduto, non riuscendo a comprendere bene il significato di quello che accade sullo schermo, indubbiamente uno degli elementi di maggior fascino del cinema di Lanthimos. Nel momento in cui si dipana l’intreccio, lo spettatore rimane avvinto al meccanismo in cui realtà e simulazione si confondono fino ad apparire indistinguibili, e chi tra i personaggi sullo schermo prova a ribellarsi a tale sistema di regole finisce schiacciato o condannato ad un’inevitabile solitudine, come accade al protagonista di The Lobster, l’esordio in lingua inglese di Yorgos Lanthimos.

Una commedia umana mascherata da tragedia

Questo gioco di realtà e simulazione non investe solo i personaggi ma il pubblico stesso: pensiamo di assistere a vere e proprie tragedie, ma se analizziamo in profondità i film di Yorgos Lanthimos essi si palesano come delle commedie dal tono ner(issim)o, in cui il grottesco e il surreale assumono declinazioni del tutto originali. Una traccia che rimane sotterranea nei primi film del Nostro, in cui la risata nervosa muore tra le labbra dello spettatore, mentre viene esplicitata dal dittico con protagonista Emma Stone formato da La Favorita e Povere Creature!, commedie dal ritmo indiavolato che solo in apparenza si muovono in discontinuità con la produzione precedente, invero incrinando in maniera sottile l’osservanza delle regole del genere: pensiamo al finale di Povere Creature!, in cui Bella Baxter riesce infine a liberarsi dalle catene del passato costruendo la propria nuova realtà, con relativo sistema di regole. Regole che conoscendo la poetica di Lanthimos potrebbero benissimo diventare soffocanti in futuro per gli altri personaggi che le gravitano attorno, come il docile nuovo marito, o la “figlia adottiva” dal debole sviluppo cognitivo incarnata dal personaggio di Margaret Qualley.

Ed ecco allora che il vero nume tutelare del cinema di Yorgos Lanthimos, più che l’austriaco Michael Haneke – lui sì davvero cinico e programmaticamente disumano – scelto come improvvido termine di paragone da taluni critici a inizio carriera, ci pare essere da sempre Pier Paolo Pasolini, sia per la sostanza allegorica che nutre il cinema pasoliniano almeno da un certo punto in poi, ma soprattutto per il tono da commedia che albergava anche i film più drammatici di PPP: come scrisse acutamente Alberto Pezzotta anni or sono, l’unico modo per rivedere ad esempio  quel terribile capolavoro che è Salò è proprio osservare la forma da black comedy che alberga sotto traccia tra i gironi infernali messi in scena nell’ultimo, maledetto film pasoliniano. Mentre appare sin troppo facile collegare la matrice culturale classica di entrambi (Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos guarda alla tragedia greca proprio come Edipo Re o Medea di PPP), è più nelle ricorrenze tra struttura drammaturgica simbolica e nei contrappunti antinomici della tonalità narrativa che ravvisiamo una profonda connessione tra i due autori, tenendo conto delle inevitabili divergenze fra due personalità artistiche che hanno vissuto temperie culturali e modalità di produzione filmica assai distanti nel tempo.

Da autore di culto a regista star, senza risentirne

C’era una volta il cinema della crisi nato in Grecia sull’onda del disastro economico e sociale vissuto dal Paese a partire dalla seconda metà degli anni Zero, e che oltre a Yorgos Lanthimos comprendeva tra gli altri Athina Rachel Tsangari, Alexandros Avranas, Syllas Tzoumerkas. Una vera e propria ondata di autori che spesso hanno collaborato fra loro, dando vita a quella che la critica d’oltreoceano ha definito weirdo wave per il carattere allucinato e la poetica dell’assurdo che ha connotato le loro opere, autori emigrati successivamente all’estero per cercare sbocchi professionali oramai estremamente difficoltosi in patria. Ma solo Lanthimos non ha risentito del passaggio in direzione di un cinema a vocazione globale,  imponendo ai suoi nuovi committenti una visione autoriale coerente e in mutazione al tempo stesso, rilanciando pregnanza poetica e sostanza stilistica anche a fronte di grandi budget e attori star, laddove i sopracitati colleghi paiono invece essersi smarriti una volta compiuto il salto internazionale. Il cinema di Yorgos Lanthimos è destinato a restare, con buona pace dei detrattori e di chi ravvisa solo aridità e un gusto provocatorio fine a se stesso: la geografia della solitudine umana, della sconfitta esistenziale tracciata dal cineasta greco ci parla del mondo odierno ed anche di domani, mettendo da parte toni predicatori ed apocalittici in favore di un’amara risata liberatoria che sottolinea l’assurdità del nostro vivere. Un approccio originale, estremo e indubbiamente personale, tutto ciò che rende un autore di cinema trans-generazionale, e non un’effimera moda di passaggio.