Giorgio Caproni e il suo labirinto, brani e versi

Il labirinto è considerato il primo racconto partigiano della letteratura resistenziale italiana. La prima bozza risale al 1944, e tratta di un tema quasi topico per chiunque in quegli anni avesse tentato di mettere su carta le vicende resistenziali: le sorti della spia che ha causato la morte di alcuni compagni di lotta. Nel racconto la spia è donna e di primo acchito parrebbe sembrare un odioso rimasuglio culturale di una certa mentalità maschilista che sicuramente nell’Italia degli anni ‘40 doveva essere molto presente a prescindere dall’appartenenza politica. Ci troviamo però di fronte a uno dei maggiori poeti italiani del secolo scorso pertanto la scelta della donna come spia risponde a una necessità poetica. La scelta di una donna come spia è un escamotage letterario, l’elemento femminile risveglia nel personaggio principale, il partigiano Pietra, una memoria ben precisa legata a una donna che ha amato – anche se per breve tempo. La somiglianza tra le due donne scatena in lui una sorta di stato d’animo di estrema incertezza, probabile un’allegoria dell’Italia cosa era stata e cosa è adesso e se ha tradito – da qui … il labirinto. Come trovare l’uscita, che fare?

In questo racconto ci sono forti elementi autobiografici (e qui di seguito ne riporteremo alcuni brani). La vicenda avviene in Val Trebbia. Giorgio Caproni partecipa, come detto, alla guerra sul fronte occidentale e in seguito a un congedo raggiunge la moglie Rina a Loco di Rovegno, in Val Trebbia. Quando le radio diffondono la notizia dell’armistizio lui è lì e decide di non aderire alla RSI. Nella raccolta Passaggio d’Enea sintetizzerà in versi la solitudine della scelta, una delle massime vette della poesia del secolo scorso:

Io come sono solo sulla terra 
coi miei errori, i miei figli, l’infinito 
caos dei nomi ormai vacui e la guerra 
penetrata nell’ossa!… Tu che hai udito 
un tempo il mio tranquillo passo nella 
sera degli Archi a Livorno, a che invito 
cedi – perché tu o padre mio la terra 
abbandoni appoggiando allo sfinito 
mio cuore l’occhio bianco?… Ah padre, padre 
quale sabbia coperse quelle strade 
in cui insieme fidammo! Ove la mano 
tua s’allentò, per l’eterno ora cade 
come un sasso tuo figlio – ora è un umano 
piombo che il petto non sostiene più. 

(Vedi in Giorgio Caproni legge le sue poesie e si racconta, 1969, RAI, clicca qui)

Bisogna anche tenere conto che Caproni vive la sua esperienza resistenziale nella valle partigiana per eccellenza. La repubblica di Torriglia, in Val Trebbia, e quella di Bobbio: sono i primi territori a dichiararsi indipendenti dalla Repubblica Sociale di Mussolini. Qui è il territorio in cui è ambientato Il labirinto e vi è il Monte Antola che domina tutte le valli lì intorno ed è questo il monte che nella realtà storica fa da rifugio ai primi partigiani e nel racconto di Caproni è il luogo verso cui scappano i quattro personaggi – il russo Gregorio, il polacco Ivan e poi Aladino e Pietra.

Resistenza: il freddo e la montagna

Il freddo è l’elemento dell’intero racconto: il freddo della montagna, il freddo della morte, il freddo del sangue per certe scelte, il freddo del cuore. E per tutto il racconto si porrà il problema di come riscaldarsi e difendersi da questo freddo insostenibile: con una raffica di mitra, allegoria del combattimento; con il seno della spia che permette ad Aladino di porvi una mano ormai cianotica, allegoria di un riavvicinamento pacifico; con la marcia verso la baita del maestro, allegoria della fuga dal combattimento.
Come abbiamo detto in precedenza, Giorgio Caproni l’8 settembre si trova in Val Trebbia dai familiari della moglie pertanto lui è lì con la moglie e i figli – la baita del maestro di cui parla nel racconto è la sua casa – lui è stato un maestro e come abbiano detto era anche un musicista:

«Era la casa dove viveva il maestro con sua moglie e i bambini, e lì Ivan, tante sere tranquille prima che fossero cominciati i rastrellamenti, aveva già suonato il violino del maestro. Il quale suonava meglio di Ivan ma per frutto di studio, e mentre Ivan suonava le canzonette americane battendo con la punta dei piedi, velocissimo, gli ottavi (ed era come bere un vino piccante) la musica del maestro invece ci deprimeva.»

Giorgio Caproni ha vissuto in prima persona il terrore dei rastrellamenti, non tanto per lui stesso, per la sua vita, ma per quella della sua famiglia. Giorgio Caproni, la moglie Rina e i figli sono per davvero dovuti fuggire su quel monte dormendo all’addiaccio.

«Trascorsi in zona partigiana gli interi diciannove mesi dell’Italia divisa in due, e qui misi i primi capelli bianchi assistendo con Rina e con i bambini (che più di una volta hanno dovuto dormire sulla nuda neve) a indicibili scene di orrore.»

Come abbiamo letto nei versi precedenti, la guerra è entrata nelle ossa del poeta e, infatti, ha condizionato buona parte della sua produzione poetica. Quando lo storico giornalista dell’Europeo, Michele Dzieduszycki (pronuncia: seduceschi), lo intervista al riguardo del suo ruolo nella lotta partigiana, la modestia di Caproni è disarmante:

«Hanno detto che ho combattuto con i partigiani… Non è vero niente! Non ho sparato nemmeno un colpo! I partigiani mi avevano chiesto di occuparmi dell’amministrazione ma in pratica non potevo fare gran che. La nostra casa era piena di armi. E certo che il pericolo c’era, ma insomma…»

Pier Vincenzo Mengaldo nel saggio La tradizione del Novecento (1991), ci fa però notare che la rievocazione della lotta partigiana nella sua prosa è realizzata in maniera ancora più certosina perché Caproni “… la Resistenza l’ha fatta sul serio”, ma non nel senso – per l’appunto – che abbia sparato contro il nemico, bensì nel senso che l’8 settembre ha scelto, è stato dalla parte dei partigiani. La sua vita e quella della sua famiglia erano quotidianamente a repentaglio, è stato testimone di orrori e non si è mai tirato indietro dall’aiutare i partigiani, in casa sua erano nascoste le armi… E Giorgio Caproni racconterà quello che è accaduto sempre nei nobili limiti di una rigorosa onestà intellettuale, senza prendersi meriti o vantarsi di cose non vere. D’altro canto non ha mai nascosto il suo disprezzo nei confronti della guerra. Si può intravedere nel poeta una contraddizione, ma di certo non una ipocrisia. Lui disprezza la guerra ma non invita i partigiani a non combattere, accetta e difende la loro guerra che reputa giusta, ma ammette di non essere capace di uccidere. Ed è proprio il personaggio del maestro che spiega questa posizione in un altro racconto, Tana da’ Urpe, dove per l’appunto appare ancora il maestro.

«Ci fece capire queste cose una sera Conti: “In questa casa”, disse rivolto al maestro, “la guerra non esiste più. Credo che se vi stessimo a lungo finiremmo con il non saper più uccidere nessuno e col tornare a casa a farci fare la pelle”. Il maestro lo guardò profondamente e rispose questo: “Certamente a voi io sembro un vigliacco, ma io potrei anche essere nelle file – non avrei davvero una paura maggiore di quella che ho qui. Io se non sono nelle file ve l’ho già detto molte volte il perché: perché io non ho saputo uccidere in me un’ultima pietà […]Io sono con voi in tutto ma so bene che fra me e uno qualunque di voi c’è una barriera d’acciaio. Approvo quello che fate senza riuscire a staccarmi da qualcosa che m’impedirebbe all’ultimo momento di non farlo […] Se credete che vi faccia male venire in questa casa, io l’avevo aperto per aiutarvi: fate come credete”» (da G. Caproni, Racconti scritti per forza).

Il maestro e gli altri

Nel racconto Il labirinto, Caproni fa solo un accenno al maestro, che è un personaggio di vitale importanza per comprendere l’esperienza autobiografia dell’autore. Tra il 1944 e il 1953, Caproni scrive otto racconti partigiani che vengono pubblicati, mentre altri tre restano inediti. Questi racconti sono poi uniti – assieme a tutta la sua prosa – nella raccolta postuma Racconti scritti per forza. Questi racconti partigiani non solo sono tutti ambientati a Loco di Rovegno, ma grossomodo hanno tutti gli stessi personaggi o almeno i loro nomi ricorrono identici. Ivan che ama la musica, Gregorio che vede dietro ogni donna una spia, Conti e Athos, non presenti ne Il labirinto, riflessivi e fiduciosi nel futuro. Oppure i compagni morti, Pippo, Raffo, Pantera, Sardegna. Questo fa sì che i racconti partigiani possano fungere da capitoli di un medesimo romanzo. Sono tutti caratterizzati dagli ambienti, dalle atmosfere, dall’angoscia, dalla speranza che la Lotta di Liberazione possa portare a un futuro migliore, e sottolinea – come poi farà Nuto Revelli – che questa guerra partigiana è stata una guerra di povera gente che si è contrapposta al più forte esercito europeo di quegli anni, la Wehrmacht fiancheggiata dai repubblichini. Ed è con la descrizione di un suono/rumore che Caproni – poeta certo, ma anche musicista – riesce a descrivere la paura dei suoi personaggi, soprattutto in Il labirinto, di fronte a questo potente esercito che li bracca incessantemente.

«Ivan, il più avanzato, si fermò di colpo. Erano cinque ore che ci arrampicavamo senza riprendere fiato.“ Sentito chiudere grandi porte?” Disse dopo essere stato un poco in sospeso. E sorridendo con i suoi denti d’oro e gli occhi tanto chiari che, sul biancore della neve, assumevano un’indicibile trasparenza grigia, cavò di tasca il fazzoletto rosso e se lo rimise al collo tranquillo. I tonfi dei mortai s’udivano velatissimi ma cupi, come grandi portoni sbattuti fra i monti.»
«Cominciava a calar rapida la sera fra i monti (i monti parevano un mare pietrificato di neve, con gli arbusti secchi e asciutti di cui sentivo in bocca il livido e scipito fiato), e ancora i portoni sbattuti dei mortai s’udivano a intervalli regolari, come se non dovessero finire più.»  

Il labirinto è quindi essenzialmente la storia di una fuga. il personaggio principale, Pietra, appare al terzo capoverso, nell’intento di cancellare le tracce del loro passaggio sulla neve. I quattro fuggitivi se ne occupano a turno, per ognuno quarantacinque minuti, facendo attenzione a saltellare da un cespuglio a un masso per evitare di lasciare ulteriori tracce quindi… «per ridurre al minimo il danno alla verginità ossessionante della neve» che in un certo qual senso introduce l’elemento femmineo nel racconto – la cui presunta colpevolezza sarà tutta da provare fino all’ultimo e, a conti fatti, non sarà mai provata se non con un’ammissione di colpa priva della benché minima spiegazione logica quindi un’ammissione che non ha un reale fondamento. A un certo punto i quattro realizzano di essere abbastanza lontani dagli inseguitori i quali forse li hanno perduti di vista, pertanto si risollevano. La paura per il nazista si attenua anche se resta la paura per un pericolo altrettanto spietato quanto il nemico: il freddo. Questo freddo insopportabile viene usato dal narratore per dare un secondo segno dell’avvicinamento dell’elemento femmineo. Le labbra tremano, è paura o è gelo.

«Io non so se era paura o gelo. Vidi i denti d’oro di Ivan mentre sorrideva replicando calmo: “Ben detto, Gregorio, ma non per me”. E anche questo lo udii dire dopo incomprensibili frasi polacche: “Ma allora perché non sparare? Una raffica sarà meglio della neve per scaldarci le dita. O forse sarebbe meglio una ragazza, una ragazza grande e calda, niente pattuglia”.»

Aladino afferma di non avere assolutamente bisogno di una ragazza, che per riscaldarsi le mani avrebbe preferito il calore della sua mitragliatrice mentre colpisce i nemici. Neanche il narratore Pietra ha bisogno di una ragazza, asserisce di avere il sangue spento. Ma chi mette un punto a quel discorso è il russo Gregorio: «“Le ragazze” disse calmo Gregorio mentre guardava nel binocolo l’orizzonte “meglio lasciarle stare, come le raffiche”».
Gregorio, come abbiamo visto, ha in mano il binocolo e sta guardando qualcosa che lo ammutolisce. Pietra se ne accorge, ricorda che tutti prendevano naturalmente gli ordini da Gregorio in quanto è il partigiano più anziano e il suo repentino silenzio allerta e impaurisce gli altri, o meglio si diffonde un panico controllato, una preoccupazione fonda.

Ombre nelle nevi

Gregorio che ha visto?
Gregorio ha visto un qualcosa che è apparso all’improvviso nella neve, capisce che si tratta di una ragazza, ma ovviamente non può esserne certo e allora passa il binocolo ai compagni. Chi non vede niente, chi vede una lepre, chi vede qualcosa ma di sicuro non una ragazza. Concordano però su di un fatto: c’è un’ombra. È qui che viene fuori il poeta Caproni, al quale non interessa tanto dare una struttura razionale al racconto quanto rendere le immagini da una parte e i dubbi dall’altra. La letteratura in fondo non dovrebbe dare risposte ma aiutare chi vi si accosta a formulare delle proprie domande sul mondo. In questo paesaggio sconfinatamente bianco e gelido, appare pertanto un’ombra, un qualcosa che macchia.

«Guardai dove m’aveva indicato Gregorio, in un folto di ginepri neri molto più giù di dove avevo visto la lepre ormai scomparsa, e poiché con le dita gelate il binocolo ancora tiepido dov’era stato toccato da Gregorio assorbiva tutta la mia attenzione, era naturale ch’io non vedessi nulla. Che non vedessi, dico, nulla d’eccezionale. Se n’accorse subito Gregorio, e strappatomi di mano il binocolo disse, porgendolo a Ivan: “Pietra è sempre stato un tonno. I suoi studi gli sono serviti soltanto a farlo diventare un tonno. Guarda laggiù tu, non importa sapere bene il latino per vedere un pericolo”.»


Nel passo che segue è nitida la dissolvenza: scompare il volto del narratore Pietra e poco alla volta appare l’autore, il poeta Caproni: «Non mi aveva minimamente offeso per questo, perché io lo avevo sempre sentito di essere un pesce incapace di navigare da solo in quel bollente mare. Dovevo appoggiarmi agli altri, aver fiducia anche in chi era più umile di me. E mi pareva proprio per questo, sebbene ora Gregorio dicesse che sono un tonno, d’essermi salvato ogni volta da non so quale pericolo dell’orgoglio.»

Alla fine il gruppo si convince che c’è qualcuno che li segue e decide che, non appena fosse calata la notte, si sarebbe spostato presso una casa che si vede in lontananza. Questa casa è, per l’appunto, la casa del maestro, in cui il maestro vive con la moglie e i figli – ed Ivan, amante della musica, dice di avervi trascorso piacevolissime serate prima che iniziassero i rastrellamenti. Mentre i quattro si avviano, si sente una voce di donna: “Non di qua, compagni, non di qua”. Il narratore Pietra riporta che: «Arrivò trafelata, di schianto, tutta calda di corsa, quasi abbattendosi sul mio petto. E il suo giovane alito lo sentii sulla mia bocca come un lieve fuoco.»

La donna consiglia di non proseguire per la direzione da loro presa, la casa del maestro è piena di tedeschi. Nessuno di loro l’ha mai veduta prima, Gregorio la accusa subito di essere una spia ma la donna lo aggredisce, lo invita a fucilarla come spia, poi cambia tono, lo prega ancora di non andare dal maestro. Il tono cambia ancora, la donna li sfida, se vogliono prendere la strada per la casa del maestro, dovranno passare sul suo corpo – è convincente, repentini tutti guardano torvi l’accusatore Gregorio. Ivan le chiede il nome, ma lei non risponde, anzi continua a esigere fiducia, ribadisce di non andare alla casa del maestro. La donna aggiunge di venire dalla città, è stata con i tedeschi, poi è scappata e solo alla fine li informa di essere la sorella del maestro.

«La ragazza sollevava ancora il petto ma aveva ripreso la sua calma: “Io sono venuta ieri dalla città” disse “coi tedeschi. Mi sono, sì, fatta accompagnare dai tedeschi, e ho fatto finta di essere con loro per poter così arrivare alla tana dove c’è mio fratello maestro. In città avevo sentito parlare di rastrellamento e volevo arrivare prima per avvertire mio fratello. Ci sono riuscita. Mio fratello è nascosto e vi ho visto, e mi ha scongiurato di venire ad avvertirvi. Ma ora pensate anche a me: io non posso tornare da mio fratello finché tra me e lui ci sono i tedeschi”.»

Questa donna comparsa all’improvviso, che non dice il proprio nome, sa dell’esistenza della casa e sa che in quella casa esiste un maestro – perché non dovrebbe essere la sorella del maestro? Gregorio continua a non crederle, ma la donna (che poi si rivela essere molto giovane, forse una diciottenne) è riuscita comunque a conquistare la fiducia degli altri tre – ad Aladino presta i suoi guanti di lana. Aladino ringrazia, li terrà giusto per un po’ giacché le mani della giovane sono più delicate delle sue e la ragazza lo incalza “Vi scalderò io le mani più tardi, se sarà necessario”.

Non vanno dal maestro, si dirigono da un’altra parte indicata dalla ragazza e giungono a una cascina, dove si preparano dei giacigli con le foglie. Ivan e Gregorio prendono sonno, la ragazza riscalda le mani del grato Aladino e Pietra va di vedetta. Quando Aladino si addormenta, Pietra scambia qualche parola con la ragazza. Il suo nome è Attilia, ma tutti la chiamano Ada. Pietra pensa che quei due nomi non si confanno a un volto tanto bello – poi la spiazza: “Tu dici di essere la sorella del maestro […] ma il maestro non ci ha mai parlato di sorelle” (32).

«Sorrise con calma: “vuol dire che sono veramente una spia” replicò. La guardai allora negli occhi ma cosa si può capire, dal volto, di una persona? Ada continuava a battere i denti, e io dimenticai il mio pensiero subito, per cercare di farla uscire dal freddo. Le scavai una cuccetta fra le foglie e, quando ci si fu adagiata, la ricopersi con un folto strato. Le foglie generano calore e di lì a poco, infatti, la ragazza era immersa, mi disse, in una nuvola di tepore. Allora anch’io, svegliato Ivan perché mi desse il cambio, mi scavai una cuccetta per riposare. Mi addormentai e non so quello che fino all’alba accadde.»

Ecco giungere l’elemento topico dell’alba, importantissimo nella poetica di Giorgio Caproni. Nel Il labirinto l’alba appare per ben due volte, all’inizio di due porzioni di racconto che si susseguono. Alba è il titolo di una delle sue più belle poesie dove l’alba, per l’appunto, appare livida e invernale, l’amore atteso non arriva, il poeta è immerso negli odori e nei profumi di un bar aperto da poco, i vetri appannati, il rumore di un tram solitario. In questi versi lo stile è malinconico e non ha pause, come se il poeta volesse dire subito quel che ha nell’animo perché la morte incombe. L’idea che la morte incomba all’alba è riportata anche nel Il labirinto. Seguono la poesia e l’alba del racconto:

Amore mio, nei vapori d'un bar all'alba, 
amore mio che inverno lungo
e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo,
e sa di rinfresco anche l'occhio,
ora nell'ermo rumore oltre la brina io quale tra
modo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dormi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte
(da Il «Terzo libro» e altre cose, Torino, Einaudi 1968)

Le notti e l’alba

«L’alba mi è sempre stata odiosa, e anche quand’ero a casa, dovendomi alzare all’alba per un viaggio o altro, tutto il giorno poi ne soffrivo allo stomaco. È l’ora bianca delle fucilazioni, quando si dice al condannato: “Vieni, il plotone ti aspetta”. E nel petto del condannato nasce come un gran vento vorticoso che squassa e non trova direzione; egli chiede istantaneamente una sigaretta e gli tremano le dita e ancora aspetta, non si sa che cosa aspetti. È un vento pesante come una montagna, un’intera montagna d’angoscia che crolla mentre le ossa rimangono prosciugate e aride, e il sangue diventa una polvere che se ne va».

«Era l’alba acida, ne sentivo tutto l’odioso sapore in bocca: era l’alba delle fucilazioni e le fucilate crepitavano davvero a bruciapelo, a pochi passi da me.»

Il narratore asserisce di non sapere cosa sia successo durante la notte perché ha dormito pesantemente e ha sognato una ragazza, conosciuta tempo prima, e che pare incredibilmente somigliante ad Ada, la presunta spia. Siamo nel cuore del racconto, non solo perché materialmente al centro delle trenta pagine ma anche perché è questo sogno che dà origine al labirinto o meglio all’incapacità da parte del partigiano Pietra di prendere in seguito una decisione. E questo sogno è riportato non solo al centro del racconto ma anche tra le due albe poc’anzi citate. Pietra aveva conosciuto questa ragazza del suo passato, molto più giovane di lui, nella calca di una corriera e la ragazza aveva la stessa maglia di lana grezza di Ada e un grazioso diastema tra i due denti contigui superiori – i denti radi.

«Perché verso quella ragazza così giovane e tutta raccolta nella sua gioventù m’ero subito sentito spinto da quella forza tremenda e gentile contro la quale nessun riparo è opponibile, essendo un fatto fisico come la crescita dei capelli, come lo slancio del sangue.»

Lui la aveva aiutata a portare la valigia fino alla fermata del tram. La seconda volta che la aveva incontrata, però, era avvenuto qualcosa che si ripeterà poi nel racconto partigiano – l’elemento della violenza o meglio della presenza di un uomo violento che rimanda a Gregorio. La seconda volta c’è Ezio, che il narratore non esita a definire un brigante, il quale andava in giro armato e aveva bisogno di una donna e che sarebbe stato capace di usare le sue armi per averne una. In maniera magistrale l’autore Caproni, fermo restando sulle sue convinzioni di quanto giusta fosse la guerra partigiana, pare fare autocritica sul fatto che la guerra, essendo guerra, sempre è opportunità per i soggetti più violenti di farsi avanti. Quando nel primo dopoguerra si fanno avanti le prime critiche alla Resistenza da parte della destra politica sul fatto che tra le file dei partigiani vi fossero elementi poco raccomandabili, ebbene questo dibattito a sinistra già era stato avviato da tempo. Chi ha fatto la Resistenza è consapevole di questo, perché la natura umana è di per sé un’incognita, elemento che in un teatro bellico ne esce enfatizzato. La visione storica di un fenomeno quale la Resistenza non deve essere condizionata dall’azione di alcuni individui. Se da una parte del conflitto c’è stato un partigiano che ha commesso un crimine, dall’altra era attitudine del comando fare rappresaglie sui civili. Se da una parte è eccezione, dall’altra è regola. Per essere più chiari, la testimonianza o l’azione di un individuo possono pesare sul giudizio di un contesto storico fino a un certo punto. Se si dovesse chiedere al cameriere di Adolf Hitler un giudizio su Adolf Hitler, probabilmente questi risponderà che era una persona educata, che lui, il cameriere, mai era stato maltrattato dal dittatore, che la mattina quando gli portava il caffè, Hitler lo invitava a sedersi accanto alla finestra per mirare le prime luci del giorno – al contempo però era in atto l’olocausto. Quanto può valere il giudizio del cameriere su Adolf Hitler? Quanto può pesare la misoginia di un Gregorio sulla Resistenza di un popolo che non voleva essere annesso al Reich e che non voleva giurare fedeltà a un capo straniero?

L’importanza civile della letteratura resistenziale sta proprio in questo: da una parte è testimonianza di un fatto storico paragonabile a una rivoluzione francese, o russa, o americana; dall’altra c’è autocritica, c’è coscienza che anche se guerra giusta, quella partigiana resta guerra, che degli italiani che avevano scelto l’altra parte erano stati uccisi … ed è quindi guerra civile – cosa che il partito comunista, come abbiamo detto, aveva problemi a riconoscere. Quasi tutti gli autori della letteratura resistenziale, infatti, si sono in seguito allontanati – per una ragione o l’altra – dal partito e della visione togliattiana. Questo fa di loro degli intellettuali veri, nel senso che sì, hanno preso parte, hanno scelto quella parte, ma a pace avvenuta si sono elevati super partes per comprendere cosa fosse accaduto – con una onestà intellettuale di ferro, e non erano mossi da un bisogno di comprendere la parte dei vinti, ma di dire le cose come erano andate, senza falsi miti. Ed è nel cuore del racconto Il labirinto che Caproni azzarda un paragone per fare passare questo concetto: tempo di pace e tempo di guerra, stessa ragazza, un partigiano misogino e un brigante pronto a fare violenza alla ragazza. Caproni dimostra di non avere paura di guardare l’orrore – le cose sono andate come sono andate. E quando il brigante ingiuria la ragazza, Pietra va via. L’ultima volta che i due si erano incontrati, erano andati a casa della ragazza e si erano congiunti: “potei goderla intera, impazzito, su un divano”. Il giorno dopo però lei era partita con la famiglia per la Francia. Pietra non l’avrebbe mai più rivista. Tutto ciò Pietra lo ha appena rivissuto in sogno.

«Un sogno tanto vero, da lasciarmi, al risveglio, perduto nello sgomento di chi si sente a un tratto un esiliato, con tutti i punti d’appoggio della vita troncati di netto.»
Renato Guttuso, fucilazione di partigiani, acquerello.

A questo punto giunge la “seconda alba” di cui abbiamo già riportato il passo; Pietra va nel panico a causa del sogno e del fatto che in questo sogno la ragazza e Ada sostanzialmente coincidono – e lui, Ada, ora non la vede, quindi chiama gli amici. Gregorio è il primo che si sveglia, subito grida che la spia è scappata, che sono in trappola, qualcosa sta per accadere. Aladino, che era stato di guardia tutta la notte, controbatte a Gregorio «“Vi dico che non ho dormito, e che non è una spia […] so io dove è andata la ragazza mentre […]”» (40), ma non finisce la frase perché esplode una raffica di mitra e subito dopo delle bombe cadono sulla cascina. È il finimondo. I quattro riescono a uscire dalla cascina, si gettano nella neve, dietro di loro il fuoco è alto e innanzi non vedono militari tedeschi. Qualcuno però in italiano perfetto ordina ai quattro di alzarsi, Aladino spara una seconda volta, Gregorio comprende al volo il mortale errore del compagno, gli grida insulti, ma è tardi, ciò che Gregorio ha temuto e compreso in una frazione di secondo, si realizza: una pioggia di proiettili cade su di loro. Alla fine, la stessa voce di prima, intima a chi è rimasto vivo di alzarsi con le mani in alto. Obbediscono solo Pietra e Gregorio, gli altri due sono morti, e i sopravvissuti realizzano che il sangue dei compagni non è stato versato dai nazifascisti ma da altri compagni – quelli che hanno di fronte sono partigiani come loro. E uno di questi dice:

«Ci è stato detto da una ragazza che qui c’erano quattro tedeschi travestiti da partigiani. Ci ha accompagnati quasi fino a questo passo.»  

Di fronte a tutto ciò, Pietra non riesce a odiare la ragazza, anzi gli passa un pensiero folle per la mente, che la ragazza della corriera e Ada siano per davvero la stessa persona. Inizia a farsi spazio in lui una sorta di labirinto, non riesce a dare un giudizio, a prendere una decisione, a odiare, non sa quale strada percorrere, come uscire da quello stato d’animo – mentre non solo Gregorio ma anche i partigiani che hanno preso l’abbaglio accusano Ada, la vogliono catturare, processare e condannare a morte. La giornata finisce nell’angoscia e nel vino. Il giorno dopo giunge la notizia, la ragazza è stata trovata. Gli uomini discutono sul da farsi:
«Aveva udito il nostro colloquio una vecchia che andava a messa e si avvicinò sibilandomi all’orecchio: “Dovreste portarla nuda lassù, a scudisciate come Gesù Cristo. Io la stenderei prima nuda sulla neve e la farei pascolare dalle mani di tutti i Tartari: ammazzarla soltanto è poco”. Guardai torvo la vecchia e anche Boris la guardò con odio: “Preferirei portar su te, vecchia barcaccia” le soffiò sul viso. “Sparisci”.»

Cosa facciamo adesso di questa Italia che abbiamo conosciuto per caso su di una corriera e che abbiamo posseduto su di un divano? Cosa facciamo di questa Italia che non abbiamo difeso dal brigante Mussolini che l’ha ingiuriata e offesa perché l’ha posseduta manu militari? Cosa facciamo di questa Italia che ci ha poi traditi?

Giorgio Caproni non dà risposte, lui getta semplicemente lo sguardo sull’orrore e lo descrive per come è avvenuto giacché una volta che la guerra c’è, le regole sono quelle – qui il grande messaggio pacifista del poeta. Viene fatto un processo, la donna viene portata a morire. Il poeta pone ancora una volta l’accento sull’insensatezza della guerra: il motivo per cui la donna ha fatto sì che i due gruppi di partigiani si sparassero gli uni contro gli altri è questo: qualcuno le ha detto di fare così. La donna pertanto non ha agito per una questione politica o personale. Credo che Caproni abbia così voluto creare la struttura aristotelica della pietà e dell’orrore che troviamo spiegata nel XIV libro della Poetica:

«Consideriamo dunque quali delle occasioni risultano terribili e quali miserevoli. È necessario che azioni di questo genere siano di persone che tra di loro sono amici o nemici o né l’uno né l’altro. Quando dunque è un nemico che agisce nei confronti di un nemico, non vi è niente che desti pietà, o che lo faccia o che stia soltanto per farlo, all’infuori del fatto orrendo in se stesso; e nemmeno quando non siano né amici né nemici; quando invece questi fatti orrendi avvengono tra amici, come ad esempio quando sia ad uccidere, o stia per farlo, il fratello il fratello, o il figlio il padre, o la madre il figlio, o il figlio la madre, o stia per fare qualche altra cosa egualmente orrenda, questi sono i casi che si devono ricercare.»

Se Caproni le avesse dato una motivazione logica, creando il nemico perfetto, da odiare, sarebbe stato difficile esortare la pietà, che nel caso specifico è rappresentata dall’atteggiamento di Pietra che quasi vorrebbe dare contro i partigiani per liberarla, ma non lo fa – così come non ha agito contro il brigante – e la ragazza viene passata per le armi. La letteratura resistenziale senza alcuna ombra di dubbio comincia con un capolavoro.

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