Certamente non si tratta di una visione facile, ma i cinefili “duri e puri” avranno pane per i loro denti guardando Atlantis di Valentyn Vasyanovych, film rivelazione di Venezia 76, dove ha trionfato nella sezione Orizzonti. Ambientato in Ucraina in un futuro distopico ravvicinato, racconta le vicende di un ex soldato che si ritrova a svolgere il lavoro di recuperante di cadaveri, in una terra dominata da desolazione, degrado materiale e lavorativo, un inquinamento che non risparmia niente e nessuno.
Degno prosecutore della poetica di Sokurov e di Tarkovskij, il film di Vasyanovych mostra una sua maturità stilistica, trovando nelle coordinate di Spazio e Tempo un proprio sguardo autonomo e originale. Da un lato abbiamo un riquadro fortemente strutturato e complesso, dove ciò che accade ai margini dell’inquadratura spesso occupa analoga importanza rispetto alla parte centrale, così come sullo sfondo possono avvenire accadimenti decisivi rispetto al primo piano. E la durata delle inquadrature certamente sfida la pazienza dello spettatore più distratto, ma consente di elaborare una tortuosa dinamica psicologica dei personaggi che si muovono all’interno di questo contesto di assoluta disperazione.
Un’opera densa e profondamente tragica, dove il rigore della messa in scena trova in piani sequenza fissi e geometrici, alternati a una macchina da presa molto mobile e convulsa, il suo alto valore estetico, con metafore potenti e talora un po’ troppo criptiche. Sequenza come quelle a infrarossi in apertura e chiusura di film, e soprattutto le autopsia dei cadaveri ritrovati, sono pezzi di bravura per nulla fini a se stessi che mostrano il talento cristallino di questo autore, che ha curato anche la suggestiva fotografia e il montaggio della pellicola. Esperienza ardua ma necessaria di cinefilia ortodossa, che conferma lo splendido momento artistico che vive il cinema d’autore delle repubbliche sovietiche.