L’incipit di Maestro pare una deliziosa e leggiadra commedia sofisticata degli anni Quaranta: in uno splendido bianco e nero scopriamo il debutto di Bernstein. Siamo nel 1943 e Leonard si trova a dover sostituire il direttore Bruno Walter alla prestigiosissima Carnegie Hall di New York: il successo è immediato e ne seguiranno molti altri. Simultaneamente, l’artista inizia la liaison con l’attrice televisiva e teatrale cilena Felicia Cohn Montealegre: i due si sposano il 10 settembre del 1951 per poi avere due figlie e un figlio (Jamie, Alexander e Nina). Il musicista, parallelamente alla relazione pubblica, coltiverà delle relazioni omosessuali sino a quando, nel 1976, lascerà la moglie decidendo di andare a convivere con il direttore d’orchestra Tom Cothran.
Il film è un tributo agli estasianti alti e angoscianti bassi che accompagnano una vita alla ricerca di amore, famiglia e arte. È interpretato dalla due volte candidata agli Oscar Carey Mulligan (Drive, Una donna promettente), nei panni dell’acclamata attrice, artista e attivista Felicia Montealegre, e da Bradley Cooper, nel doppio ruolo di regista e interprete del leggendario musicista, direttore d’orchestra, compositore, insegnante e autore Leonard Bernstein.
Il talento di Bernstein, la sua teatralità, il suo enorme entusiasmo per le persone e per l’esplorazione artistica avrebbero dovuto mettere in luce le pressioni dell’epoca in cui viveva, e i tentativi di Cooper in tal senso sono moltissimi, senza che l’autore riesca però a trovare una vera e propria quadra: sembra infatti che nel momento in cui cerchi una certa partecipazione emotiva – per quelli che oggettivamente sono i momenti più problematici di una vicenda inizialmente poco chiaroscurale, bianco e nero permettendo – finisca con lo scivolare nella retorica e nell’abituale dazio da pagare alla piattaforma rossa in cabina di produzione (Netflix, ça va sans dire).
E dire che la prima mezz’ora del film è francamente sorprendente, dal momento che il dinamismo di Bernstein che debutta in teatro viene raccontato con un linguaggio che cita – prima attraverso delle assonanze e poi in maniera quasi sfacciata – il musical. Una chiave interpretativa sicuramente appropriata e cinematograficamente stimolante, che aiuta a entrare pienamente in sintonia con il protagonista senza (troppi) eccessi di agiografia e didascalismi.
Peccato che nella seconda parte dell’opera, nella quale si racconta l’età più matura del Bernstein autore e uomo, assieme al cambio di fotografia (si passa infatti dal bianco e nero al colore) vi sia un inesorabile appiattimento verso il biopic convenzionale, nel quale la noia e la sostanziale mancanza di forza visiva la fanno da padroni, sino a un finale in cui le lacrime vengono strappate con insistenza dai dotti degli incolpevoli spettatori.
Quando Spielberg, impegnato in vari progetti tra i quali proprio l’adattamento di West Side Story di Bernstein, ha deciso che non avrebbe diretto il film al quale si era dedicato per qualche tempo, Cooper si è subito candidato spiegandogli che aveva trovato la formula giusta lavorando ad A Star Is Born, e cioè di fare sceneggiatura e regia quando la storia lo commuoveva veramente: “Se davvero non vuoi dirigerlo tu, ti dispiace se faccio alcune ricerche su Leonard Bernstein per vedere se posso cavarci un film di cui potrei scrivere il copione e anche dirigere?”, ricorda di avergli chiesto.
Ebbene, forse sarebbe stato meglio che il buon vecchio Steven avesse trovato un po’ di tempo in più per dirigerlo lui questo Maestro, tra un capolavoro (West Side Story) e un’autobiografia su pellicola (The Fabelmans) non particolarmente riuscita: staremmo certamente parlando di un’opera meno dimenticabile.
Maestro uscirà in sale selezionate a Dicembre e su Netflix il 20 dello stesso mese.