Venezia 76 – Sole

Ermanno (Claudio Segaluscio) è un ragazzo che passa i suoi giorni fra slot machines e piccoli furti. Lena (Sandra Drzymalska) – polacca poco più che ventenne – arriva in Italia per vendere la bambina che porta in grembo e poter iniziare così una nuova vita in Germania. Ermanno deve fingere di essere il padre della bambina per permettere a suo zio e alla moglie, che non possono avere figli, di ottenere l’affidamento in maniera veloce, attraverso un’adozione tra parenti. Sole, però, nasce prematura, e deve essere allattata al seno: mentre Lena cerca di negare il legame con sua figlia, quello che sino a quel momento è stato una sorta di carceriere inizia a prendersi cura di loro come se fosse il vero padre.

Percorre una strada ampiamente solcata, Carlo Sironi. Trentasei anni, figlio dello scomparso Alberto (regista, tra gli altri, del Montalbano televisivo), all’esordio con il lungo dopo alcuni cortometraggi premiati nei Festival di mezza Europa, sceglie di raccontare una vicenda di maternità surrogata, tentativo già messo su schermo con poco successo da Sebastiano Riso ed Edoardo De Angelis, solo per fare due nomi del recente passato.

Ma l’intelligenza del regista romano classe 1983 è quella di utilizzare un tema tanto delicato e ambiguo come collante naturale di una vicenda privata, che tiene a distanza i moralismi e gli eccessi retorici di quel cinema sociale nel quale noi italiani inciampiamo troppo spesso per concentrarsi piuttosto sui personaggi, sulle loro emozioni e sulle possibili traiettorie verso il domani. Un’evoluzione, quella di Lena e di Ermanno, costruita su piccolissimi scarti, variazioni infinitesimali che una volta sommate tra loro producono uno step di crescita e uno snodo fondamentale all’interno delle rispettive esistenze.

I silenzi di Ermanno, afflitto da un male di vivere a prima vista incurabile, e il rifiuto di Lena nei confronti della neonata, in procinto di prepararsi a una nuova vita lontano dall’ingombrante fardello di una maternità non sostenibile, non mancano certo di crudezza e iperrealismo, ma la straordinarietà di Sole sta proprio nell’approccio che Sironi sceglie per la messa in scena dell’opera: un linguaggio essenziale, depurato di manierismi e inutili orpelli, capace di restituire la condizione emotiva dei personaggi senza moralismi e facili sottolineature. Condizione che comprende quell’immobilità affettiva che li attanaglia nonostante tutto quello che accade loro, e che gradualmente lascia spazio a una flebile suggestione, che (forse) si tramuterà anche in una speranza concreta.

Un linguaggio aperto a mostrare tutta la complessità dei sentimenti che iniziano a provare, che scalfisce le gabbie emotive dei protagonisti e gradualmente anche di chi li guarda muoversi sul grande schermo; a questo proposito, impossibile non menzionare l’efficacissima gestione degli spazi cinematografici, che ci ha davvero impressionato per rigore e contestualizzazione narrativa (quei campi medi a camera fissa sono qualcosa più di semplici eco del grande cinema dell’est).

Un esordio potente, quello di Sole, che avrebbe potuto trovare spazio nel Concorso ufficiale di Venezia 76 ma che con buona probabilità è stato inserito di proposito nella sezione più sperimentale del Festival, per salvaguardarne lo status di “ingombrante” opera prima e forse anche per donare maggiore visibilità a uno dei più begli esordi italiani degli ultimi anni.