Dopo il passaggio alle Giornate degli Autori nel 2011 con Love and Bruises, il cineasta cinese Lou Ye torna quest’anno alla Mostra, ma nella Selezione Ufficiale, con Saturday Fiction, spy-story ambientata nella Shanghai del 1941, quando la Cina, sotto l’occupazione giapponese, è teatro di un’altra guerra intestina: quella tra i servizi segreti alleati e le potenze dell’Asse.
Protagonista del film è Jean Yu (Gong Li), famosa attrice teatrale che torna in patria dopo una lunga assenza per recitare nella commedia Saturday Fiction, diretta dal suo ex amante. Ma quello non è il suo unico obiettivo, perché la donna nasconde un segreto che ha radici nascoste nel suo passato: il padre adottivo l’ha cresciuta per seguire le sue orme e diventare come lui una spia dell’intelligence americana.
Muovendosi in un contesto ambiguo e indistinto, Jean Yu deve fare ricorso a tutta la sua astuzia e capacità di seduzione per raccogliere informazioni sui piani dei giapponesi: siamo alla vigilia di Pearl Harbor e il destino della guerra dipende anche da lei.
Esponente della cosiddetta Sesta Generazione “ribelle” di autori cinesi – quella di Zhang Yuan, Jia Zhang-ke e altri – che in segno di rottura con i cineasti della generazione precedente privilegia storie urbane ambientate nella contemporaneità e popolate di personaggi spesso alienati, Lou Ye ha conquistato la fama internazionale con il suo terzo film, Suzhou River (2000), noir moderno in cui esplora il tema del doppio, prima di conquistare a Cannes la Palma per la migliore sceneggiatura nel 2009 con Spring Fever e l’Orso d’Argento a Berlino nel 2014 con Blind Massage.
Con Saturday Fiction, liberamente tratto dal romanzo La donna vestita di rugiada di Ying Hong e adattato per il cinema da Ma Yingli, mette in scena un melodramma di grande atmosfera, nella suggestione di un bianco e nero digitale, in un continuo gioco di finzione tra realtà e teatro, che vede il ritorno di Gong Li sul grande schermo in un ruolo da protagonista assoluta.
Partendo dalla finzione, a ragion veduta evocata dal titolo e dalla prima sequenza, nella quale la messa in scena viene bruscamente interrotta da un entrata anticipata di un commediante, costruisce una scatola cinese di intrighi e doppiogiochismo, alla base dei quali i moventi sono fondamentali, anche se per lo più sfocati, non sempre accessibili.
Attraverso uno stile che solo nella desaturazione del colore rimanda al noir dell’epoca d’oro, Lou Ye scompone e ricompone, prediligendo il ricorso alla macchina a mano e l’utilizzo di ripetuti pianosequenza, all’interno dei quali è presente un sabotaggio continuo della realtà, e con essa della partecipazione emotiva dello spettatore, che è chiamato a un importante sforzo di ricostituzione del testo.
La verità è dunque inconoscibile, frammentaria e confusa, e le conseguenze delle azioni subordinate al disvelamento della menzogna, rifratta negli specchi della recitazione, della professione di spia e della dinamica amorosa.
Solo il Cinema, che rifrange a sua volta per poi ricomporre attraverso l’atto del vedere, costruisce una prospettiva e un punto di fuga, ma allo stesso tempo palesa le ambiguità e i limiti del mezzo espressivo, che nell’interpretazione dell’autore cinese giunge in anticipo sulla drammaticità del reale ma allo stesso tempo è impossibilitato a modificarne le traiettorie.
La complessità e la modernità di Saturday Fiction non saranno certamente per tutti, ma in un Festival perlopiù popolato da film illustrativi e vagamente moralizzanti, è uno di quei pochissimi che cerca con insistenza nuove angolazioni, provando a fare (e farsi) domande più che a fornire risposte.