Nel 2017, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Franco Maresco decide di realizzare un nuovo film: per farlo, trova impulso in un suo recente lavoro dedicato a Letizia Battaglia, la fotografa ottantenne che con i suoi scatti ha raccontato le guerre di mafia, definita dal New York Times una delle “undici donne che hanno segnato il nostro tempo”.
A Letizia, Maresco sente il bisogno di affiancare una figura proveniente dall’altra parte della barricata: Ciccio Mira, già protagonista nel 2014 di Belluscone – Una storia siciliana. Leggendario organizzatore di feste di piazza, nei pochi anni che separano i due film Mira sembra cambiato, forse cerca un riscatto, come uomo e come manager, al punto da organizzare un singolare evento allo Zen di Palermo: “I neomelodici per Falcone e Borsellino”. Eppure le sue parole tradiscono ancora una certa nostalgia per “la mafia di una volta”.
La mafia non è più quella di una volta ci parla di una sottocultura, quella che non nasce dall’oggi al domani e di cui si parla discute molto senza saperne (mai) abbastanza. Ma a Maresco non interessa parlare in maniera diretta dei massimi sistemi: il regista siciliano preferisce insistere sui risvolti grotteschi, focalizzandosi sull’abituale catologo di freaks, bislacchi nelle forme così come nelle movenze e nei gesti, che sin dai tempi di CinicoTV sono parte integrante del suo racconto per immagini.
Il Cinema di Maresco, semplicemente, si nutre di quella linfa vitale che è il contesto in cui vive, dal quale mai e poi mai è possibile alienarlo, pena reciderne l’arteria principale: la caparbietà dello “scettico” Maresco, come lui stesso si definisce, porta a denudare il reale attraverso la forza dissacrante dello sberleffo comico e del ridicolo che pervade i suoi personaggi.
L’opera è una sorta di costola o seguito ideale di Belluscone e mette a fuoco nuovamente la Sicilia e Palermo di oggi, la mafia e l’antimafia, la “trattativa” Stato-mafia, l’assurda realtà e la tragicomica finzione. Un documentario “à la Maresco”, impastato dunque di uno sguardo lucido, cinico, graffiante, a metà tra la tragedia, il grottesco, il comico e l’assurdo della verità narrata.
Ciccio Mira, scalcinato impresario concerti di cantanti in odor di mafia, allestisce un improbabile festival neomelodico nella ricorrenza dei venticinque anni dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio allo Zen di Palermo, e sostanzialmente per buona parte del film Maresco segue la preparazione e la messa in scena dell’evento, tra problemi produttivi e rifiuti delle “star” più attese.
La Mafia, a differenza di quella conosciuta e “venduta” per decenni dai mass media, ha subìto un mutamento radicale delle proprie dinamiche comunicative, e vive soprattutto grazie alla vuota celebrazione commemorativa, quella che uno slogan dietro l’altro celebra un ricordo svuotato del suo significato e sempre più distante nel tempo.
Ecco allora che Maresco mette in scena, con l’aiuto di un inconsapevole (o sin troppo consapevole, chissà) teatro degli orrori, tutta la contraddizione presente nelle pieghe della lotta alla Mafia, regalando risate amarissime e allietando gli occhi degli spettatori con invenzioni spiazzanti.
Se qualcosa si può rimproverare a questo La mafia non è più quella di una volta è semmai la sua ontologica complementarietà con il precedente Belluscone (in fondo potremmo considerarlo uno spin-off incentrato su uno dei personaggi più originali dell’antologia mareschiana), e dunque una certa tendenza a ripetere schemi e soluzioni già messe in campo, ampliandole sì, ma senza quella forza dirompente tipica dell’atto primigenio.