Venezia 76 – Ema

Ema (Mariana Di Girolamo), giovane ballerina, decide di separarsi da Gastón (Gael Garcia Bernal) dopo aver rinunciato a Polo, il figlio che avevano adottato ma che non sono stati in grado di crescere e che hanno restituito a causa di un grave incidente che ha sconvolto le loro vite. Per le strade della città portuale di Valparaíso, la ragazza va alla ricerca disperata di storie d’amore che la aiutino a superare il senso di colpa: ma Ema ha anche un piano segreto per riprendersi tutto ciò che ha perduto.

A giudicare dalla sua ultima opera – Ema, presentata nel Concorso di Venezia 76 – l’impressione è che Pablo Larrain sia molto a suo agio nel raccontare e reinterpretare in chiave personale il passato, ma decisamente in difficoltà quando a essere protagonista è il presente, con i suoi contorni indefiniti e le traiettorie sghembe, difficili da intercettare e ingabbiare.

Nel rivelare i moti centrifughi e le contraddizioni di un paio di generazioni successive alla sua, il cileno cerca insistentemente di cogliere gli aspetti nevrotici e dinamitardi di una società in costante movimento, senza mai riuscire a restituirne a pieno l’impatto, o a mediarli tramite una forma che renda loro una compiuta dignità filmica.

Ema è sì un film incendiario, anarchico e decisamente fuori dagli schemi – specialmente dagli schemi larrainiani, visto che non somiglia a nessuna delle sue opere precedenti – ma allo stesso tempo sfilacciato, vagamente inconcludente, che lascia sicuramente un segno tangibile senza però graffiare l’anima come sarebbe lecito attendersi.

Inutile spendere troppe parole sul talento visivo del cileno: chi conosce il suo cinema sa di che cosa è capace, e quest’opera ne è l’ennesima (e non richiesta) conferma filmata. Peccato però che, mettendo da parte quel rigore formale che da sempre gli assicura un grande controllo sulla materia trattata, Larrain sembri perdere anche parte della sua acutezza, affidandosi come fa alla potenza delle immagini senza badare troppo alle dinamiche espositive, che ben presto si mostrano discontinue, quando non capziose o addirittura irritanti.

Una narrazione che il regista cerca poi di riportare sui binari della convenzionalità cinematografica attraverso un twist e un finale rivelatore, in verità un tentativo piuttosto maldestro di conciliare l’inconciliabile e di ristabilire una direzione ormai perduta: un epilogo telefonato e soprattutto privo di quella forza che forse, almeno nelle intenzioni del regista, avrebbe dovuto far definitivamente deflagrare il (senso del) film.

E allora lo straordinario accompagnamento reggaeton diventa l’unico appiglio al quale tenersi stretti, in attesa che Larrain torni a stupire tutti con un film dannatamente ostico, forse anche più respingente di Ema, ma che riesca con migliore efficacia ad aprire la mente e gli occhi: sul passato, sul presente , sul futuro del suo o di un altro Paese poco importa, ma di certo con una densità e uno spessore maggiori rispetto all’ultima (in ordine di tempo) fatica.