Beniamino da sempre del pubblico veneziano, con Killing Shinya Tsukamoto torna in concorso a quattro anni da Nobi, di cui costituisce una sorta di dittico in chiave anti-bellica eseguito con il consueto tratto stilistico personalissimo e allucinato. Ma tra le molteplici virtù di questo film, applaudito anche dopo la presentazione alla Mostra da una folla composta da molti giovani durante la rassegna Venezia a Napoli, non possiamo non sottolineare anche il valore teorico di un cinema che non tenta di inseguire vanamente la serialità televisiva sul piano della durata temporale, come fanno molte opere sia sul versante più autoriale che quelli di afflato più popolare, comprimendo in appena 80 minuti tutto ciò che deve dire.
Basta infatti un’immagine, un singolo momento, appena un movimento di macchina, per esaltare la grande capacità di sintesi insita nel mezzo cinematografico e nel suo linguaggio specifico, e Killing di Shinya Tsukamoto ne rappresenta l’emblema più fulgido di quanto visto recentemente alla Mostra: la vicenda del ronin (samurai senza padrone) che non vuole uccidere, contrapposto a un altro samurai che lo coopta per una battaglia campale, interpretato dal regista stesso, e che condurrà all’inevitabile scontro finale, viene mostrato attraverso macchina a mano, primi piani e dettagli ravvicinatissimi, intermezzi spiazzanti, un uso marcatamente originale del sonoro, che contraddistinguono da sempre il cinema di Tsukamoto, che da par suo rivisita il chambara come aveva già fatto in passato con la fantascienza, il dramma, il genere bellico o quello sportivo, in maniera unica e sorprendente.
Grazie a Killing, Shinya Tsukamoto si conferma una voce assolutamente fuori dal coro nel panorama internazionale, oltre che nel cinema giapponese stesso, lanciando un urlo straziante contro ogni violenza, andando contro i consueti e radicati temi dell’onore e della vendetta: rispondere alla violenza con altra violenza è davvero la sola soluzione? Oppure innesta un circolo senza fine? La guerra, sembra dirci Tsukamoto, è come un virus che una volta inoculato non può che infettare ogni luogo e ogni tempo, e Killing da questa prospettiva ci sembra quasi il prologo necessario a Nobi, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale. Duelli fulminei, dettagli splatter appena accennati, l’eco lontano di un grido nella foresta: bastano pochi tratti a Tsukamoto, come rapide pennellate di un pittore impressionista, per lasciare il segno, firmando uno dei suoi film più lucidi e diretti, oltre che un’opera impeccabile sul fronte del mero intrattenimento.