Nati e cresciuti in una periferia controllata dalle bande del traffico di stupefacenti, Driss (Reda Kateb) e Manuel (Matthias Schoenaerts) sono come fratelli. Una volta diventati adulti, scelgono due percorsi opposti: Manuel ha scelto di abbracciare definitivamente la vita del delinquente mentre Driss l’ha completamente rinnegata diventando un poliziotto.
Quando il colpo più importante della carriera finisce male, i due uomini si incontrano di nuovo e capiscono che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere nei propri mondi. Tra tradimenti e vendette e nonostante l’odio reciproco, rinnovano la loro unione basandosi sull’unica cosa che gli è rimasta in comune: il loro viscerale attaccamento ai luoghi della loro infanzia.
Se è vero che quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia pare aver privilegiato i generi cinematografici come mai prima d’ora, di certo non poteva mancare in concorso un polar francese. Diretto da David Oelhoffen, regista del bel Loin des hommes visto qualche anno fa proprio qui al Lido, il film pesca sfacciatamente dalla tradizione più recente del poliziesco transalpino (l’ombra di Jacques Audiard sembra essere costantemente presente) e gira un film solido ma privo di guizzi, nel quale l’aspetto più rilevante è rappresentato dalla buona dimestichezza nel girare sequenze nervose e ricche di tensione senza mai perdere il controllo di spazi e prospettive (a questo proposito è opportuno menzionare la gestione della splendida sequenza dell’agguato, vissuta tutta attraverso lo sguardo di Manuel).
Pur cercando di innestare suggestioni più intime – con rimandi anche in questo caso poco velati al cinema di James Gray e ai suoi macrocosmi familiari – il film del francese non riesce mai davvero a deflagrare come dovrebbe, e pur non sbagliando quasi nulla nell’intreccio e nelle dinamiche formali, Oelhoffen non riesce ad accorciare la distanza emotiva tra i personaggi e lo spettatore, tra i loro sentimenti viscerali e i nostri sussulti passionali.
Inutile dire che era lecito attendersi qualcosina più, vista la scelta dei selezionatori del Festival di inserire un’opera nella competizione principale di una grande rassegna internazionale, peraltro in una delle annate qualitativamente più dense: l’impressione è che Oelhoffen non abbia la personalità giusta per sposare senza riserve un’operazione di reinvenzione che cerchi di spingersi oltre la propria zona di comfort, col rischio di sbagliare, certo, di prendere abbagli e di deragliare, ma evitando di stilare l’ennesimo e poco utile compitino.