Un breve escursus sul Collettivo Donne Fotoreporter: fotografe che hanno osato sfidare le convenzioni, mettendo in discussione i ruoli di genere e usando l’obiettivo come strumento di denuncia sociale.
“Ma si sa che le donne oggi sono velleitarie: questi angusti spazi che ci vengono consentiti non sono certo i nostri e preferiamo non prenderli sul serio”.
Questa frase, pronunciata con ironia pungente dal Collettivo Donne Fotoreporter nel 1978, risuona oggi con un’eco diversa, forse un po’ amara.
Come Cindy Sherman, che negli stessi anni negli Stati Uniti scomponeva l’identità femminile attraverso autoritratti iconici e provocatori, il Collettivo Donne Fotoreporter ha usato la fotografia per dare voce a una generazione di donne in cerca di emancipazione.
“È riconosciuto che sono gli anni Sessanta e più decisamente i Settanta che vedono l’ingresso delle donne nel mondo della fotografia e della professione. Sono gli anni delle grandi rivoluzioni sociali, culturali e politiche, lì fuori c’è un Paese in deciso e violento cambiamento, percorso da lotte, manifestazioni, diseguaglianze sociali e il racconto si fa immediatamente urgente, ma c’è anche una presa di coscienza di genere e, insieme ai diritti da rivendicare, si fa strada il bisogno di costruirsi una nuova identità e di rappresentarla con uno sguardo altro. E la fotografia sembra diventare lo strumento più naturale ed efficace per dar voce a tutte queste istanze.” (Gabriella Guerci – fotografie e femminismo nell’Italia degli anni settanta edizione Postmedia Books 2021)
Ma cosa è rimasto di quella spinta rivoluzionaria? Oggi la fotografia, sia essa maschile o femminile, sembra aver perso quella forza dirompente, quel desiderio di incidere sulla realtà. L’attenzione si è spostata verso l’interno, verso l’estetica, verso la ricerca di una bellezza spesso fine a se stessa. I progetti che ricevono visibilità sono quelli che privilegiano la forma al contenuto, che non mettono in discussione le identità individuali e collettive, che non si fanno portavoce di messaggi di cambiamento.
Certo, la fotografia rimane un mezzo potente, capace di raccontare storie e suscitare emozioni. Ma forse, in questa epoca di narcisismo digitale, abbiamo dimenticato il suo potenziale trasgressivo, la sua capacità di essere “arma di liberazione”. Il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, è un’occasione per ricordare il Collettivo Donne Fotoreporter e il suo contributo alla lotta per l’uguaglianza di genere.
E per chiederci: cosa possiamo fare, con le nostre foto, con le nostre parole, con le nostre azioni, per riaccendere quella fiamma di ribellione e costruire un futuro più giusto e inclusivo?
Nato quasi per caso, dall’idea di realizzare un audiovisivo sulla condizione femminile, il Collettivo Donne Fotoreporter, fondato ufficialmente nel 1976, si è presto trasformato in un laboratorio di idee e di sperimentazione, in cui le fotografe, provenienti da diverse esperienze politiche e professionali, hanno esplorato il legame tra donna e fotografia.
L’esplorazione del quotidiano femminile attraverso linguaggi e obbiettivi comuni diede vita a una mostra itinerante, “Una nessuna e centomila”, che ha toccato diverse città italiane.
Il progetto espositivo “Una nessuna e centomila” aveva alla base la decostruzione degli stereotipi di genere: attraverso autoritratti ironici e provocatori, le fotografe hanno sfidato i ruoli tradizionalmente assegnati alle donne, rivendicando il diritto di essere madri, mogli e professioniste, senza dover rinunciare alla propria libertà e indipendenza.
© Collettivo Donne Fotoreporter
“Una Nessuna Centomila” I Ruoli. Ritratto di coppia: Kitti Bolognesi con attrezzatura da fotografo e uomo in ginocchio
“Una Nessuna Centomila” è articolato in diversi capitoli: “La casalinga. I riti” di Liliana Barchiesi; “Dentro casa, fuori casa” di Kitti Bolognesi; “Grembiuli” di Giovanna Calvenzi; “Casalinga. Il Ruolo” di Marcella Campagnano; “Le camicie da notte” di Marisa Chiodo; “Il tempo libero” di Marzia Malli; “I sacchetti di plastica” di Gabriella Peyrot; “Gli oggetti della pulizia” di Laura Rizzi, “Tocco finale” di Livia Sismondi” e “La radio” di Chiara Visconti.
Pur non essendosi mai ufficialmente sciolto, il Collettivo ha visto diminuire l’attività comune nel tempo, mentre le singole fotografe hanno continuato a percorrere le proprie strade professionali.
Il Collettivo Donne Fotoreporter, pur nella sua breve durata, ha lasciato un’eredità importante. Le loro immagini, scattate in un periodo di grandi cambiamenti sociali e culturali, ci ricordano il potere della fotografia come strumento di denuncia, di espressione e di emancipazione. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, il loro messaggio rimane attuale: la fotografia, come qualsiasi altro linguaggio, può essere un mezzo potente per dare voce a chi non ha voce, per raccontare storie di resistenza e di cambiamento.