Giacomo Leopardi e il tormentato rapporto di odio e amore con la città di Napoli
Il poeta, dopo una sosta a Roma “oziosa e dissipata dei letterati ignoranti”, giunse a Napoli col suo fraterno amico Antonio Ranieri nell’ottobre del 1833.
Doveva accordarsi con un editore per la pubblicazione delle sue opere e soprattutto cercare un clima mite per dare sollievo ai mali che l’affliggevano.
Dopo le prime pubblicazioni, alcuni suoi volumi vennero sequestrati per ordine del governo borbonico. Furono giudicati non consoni alla morale clerico-bigotta della attenta censura instaurata nel regno.
Il primo impatto con Napoli fu molto buono:
“La dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”
“I popoli meridionali “, inclini “all’attività e al riposo”, “tante risorse trovano nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita occupa internamente, e nulla all’esterno”.
Il poeta paragona la differenza tra i popoli meridionali e quelli settentrionali a quella che vi è tra gli “antichi, possessori del bello e dell’immaginazione, e i moderni inclini al vero e alla ragione “; egli nota “la vera eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale” e ribadisce che “gli antichi si rassomigliano al carattere meridionale e i moderni al settentrionale”.
Vivere per lungo tempo in una grande città era assai arduo per il poeta abituato a Recanati e a Firenze. Una grande capitale che, nonostante la vivacità culturale e i notevoli pregi di bellezze naturali, storiche, architettoniche, era caotica, disordinata, con zone degradate densamente popolate con notevoli problemi sanitari, e per giunta sotto un amministrazione dura e reazionaria.
Rapporto con gli ambienti culturali partenopei
Insufficiente era il conforto della stima dei molti eminenti studiosi conosciuti in città: il dottor Mannella, Raffaele Conforti, Basilio Puoti, Carlo Troya, Costantino Margaris, Giuseppe Ferrigni, Alessandro Poerio.
I circoli culturali molto attivi in città erano condizionati dalle idee cattoliche e liberali.
Leopardi si sentiva estraneo, e lo stesso poeta appariva agli occhi di tutti ” pressoché inaccessibile e scontroso a causa della sua misantropia ”.
In aggiunta lo infastidivano il carattere invadente e l’atteggiamento di sfottò, spesso anche malevolo, che mostravano i Napoletani nei riguardi dei malformi .
E’ vero che già da piccolo nel “natio borgo selvaggio” lo canzonavano con una filastrocca “Gobbus esto / Fammi un canestro / Fammelo cupo / Gobbo fottuto”.
Perfino un caro amico di famiglia lo definì: “Gobbo davanti e di dietro, esile, pallido…l’occhio mi sembra celeste, delicato, cheto, dolce, i capelli castagni, finissimi, deforme, eppure gentile”.
Ed egli stesso diceva di portare sulle spalle “un baule, pesante e greve “.
I Napoletani lo prendevano in giro di continuo specie quando andava al Caffè d’ Italia, a rimpinzarsi di dolci e gelati e a sorbire dei caffè dolcissimi.
Lo chiamavano “o ranaruottolo”, il ranocchio, anche a causa di una palandrana verde ormai lisa da cui non si separava mai.
La cultura napoletana era cattolica, romantica. Vedeva Leopardi come un eretico. Molti lo scansavano. Leopardi ricambiava con vemenza : “Ogni affare di una spilla porta un’ eternità di tempi ed è difficile il muoversi da qua come il viverci senza crepare di noia”.
I Napoletani gli sembravano “lazzaroni e pulcinella, nobili e plebei, tutti ladri e dei baron fottuti, degnissimi di Spagna e di forche”.
Mangiatori solo di maccheroni:
“de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
anteposto il morir troppo le pesa.
E comprender non sa quando son buoni,
come per virtù lor non sian felici
borghi, terre, province e nazioni”
Ma i Napoletani gli risposero per le rime:
“E tu fosti infelice e malaticcio, o sublime Cantor di Recanati,
che bestemmiando la Natura e i Fati,
frugavi dentro te con raccapriccio.
Oh mai non rise quel tuo labbro arsiccio,
né gli occhi tuoi lucenti ed incavati,
perché… non adoravi i maltagliati, le frittatine all’uovo ed il pasticcio!
Ma se tu avessi amato i Maccheroni più de’ libri, che fanno l’umor negro,
non avresti patito aspri malanni…
E vivendo tra i pingui bontemponi”
(tratto da una poesia di Gennaro Quaranta).
Leopardi suscitava impressione e timore un po’ a tutti. La stessa Fanny Tozzetti Targioni , di cui Leopardi a Firenze era innamoratissimo al punto da dedicarle un sonetto del ciclo di Aspasia, in un intervista di Matilde Serao che le chiedeva come mai avesse respinto le avances amorose del grande poeta rispose candidamente e priva di misericordia: «Mia cara, puzzava!»
Per sfuggire ad a una epidemia del colera si trasferì con l’amico Ranieri sulle falde del Vesuvio nella Villa Ferrigni dove compose due fra le più belle poesie dell’opera leopardiana, Il tramonto della luna e Alle ginestre, opere pubblicate postume nel 1845. Tornato a Napoli nella primavera 1837 morì il 14 giugno dello stesso anno.
Le malattie, la morte e la scomparsa del corpo.
Leopardi giunse a Napoli afflitto da diversi mali in primis la turbercolosi ossea, il cosiddetto morbo di Pott, che lo deformò mostruosamente e gli procurò anche notevoli disturbi cardio-respiratori. Inoltre aveva “mal di visceri”che gli causavano stipsi, diarrea con dolori lancinanti aggravati dall’ abuso di caffè e soprattutto dall’eccessivo consumo di dolciumi di cui era ghiotto (“…frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…”).
Di frequente aveva disturbi della vista “una flussione”, per la quale doveva spesso restare in casa, “una vita da gufo” .
Nel certificato di morte fu scritto pericardite acuta detta allora “idropisia”; fu seppellito nella chiesa di San Vitale, secondo il racconto dell’ amico Ranieri ma a quanto pare le cose non andarono così.
Nell’anno della morte vi era a Napoli una forte epidemia di colera.
Le leggi borboniche erano severissime: nessun cadavere poteva essere seppellito nelle chiese, gli unici posti destinati alla raccolta dei resti mortali erano il cimitero delle Fontanelle o quello dei colerosi a Poggioreale. Ranieri raccontò di aver salvato l’amico dalla “confusione del camposanto colerico ed assettato in una cassa di noce impiombata, e raccolto pietosamente in una sepoltura ecclesiastica sotto l’altare a destra della chiesetta suburbana di San Vitale”. Era impossibile trasportare una salma fuori città con la vigilanza ferrea della polizia sanitaria; inoltre nei registi della chiesa stessa non si è trovata nessuna documentazione della sepoltura degli avanzi mortali di Giacomo Leopardi se non la lapide fatta erigere dallo stesso Ranieri successivamente e che recita:
“Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d’Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Antonio Ranieri per sette anni fino all’estrema ora congiunto all’amico adorato MDCCCXXXVII”
Nel libro X dei defunti della Chiesa di S. Annunziata a Fonseca competente per il domicilio del Vico Pero (dove morì Leopardi) sulla strada che porta a Capodimonte si legge a pag 174 “A 15 giugno 1837 Don Giacomo Leopardi conte figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni 38, munito dei Santissimi Sacramenti, al’ 14 detto mese, sepolto id. (idem)” Il compilatore del registro infatti per non ripetere ogni volta il luogo di sepoltura, se questo coincideva con quello riportato accanto al nominativo del deceduto precedente riportava la parola “id.” La persona morta nello stesso giorno di Leopardi e che lo precedeva secondo la lista era stato sepolto nell’ossario delle Fontanelle.
Per cui Ranieri mentì spudoratamente per non essere riuscito a salvare il Leopardi dall’ oblio delle fosse comuni.
Sulle cause della morte di Giacomo Leopardi non si è mai raggiunta una certezza assoluta per l’indisponibilità dei suoi resti mortali.
Alcuni anni dopo Ranieri sostenne con gli amici di aver riaperto la cassa, di essere rimasto in contemplazione e in meditazione per due ore davanti allo scheletro del suo grande amico.
Nel luglio del 1900 la cassa fu aperta una seconda volta alla presenza del sindaco di Napoli e di un medico legale che era pronto ad esaminare le ossa. Ma tutto quello che si trovò furono dei frammenti d’ossa e un femore sinistro: non c’ era neppure il teschio, che è la parte del corpo che più resiste al trascorrere degli anni, Si accertò senza ombra di dubbio quelle poche ossa sicuramente non erano di una persona affetta da turbercolosi ossea.
Nel 1939 in pieno regime fascista la cassa con le presunte ossa di Leopardi venne traslata insieme alla lapide del Ranieri in pompa magna alla monumentale tomba che era stata allestita per lui al parco Vergeliano, un luogo assai caro al poeta dove una leggenda racconta trovasi la tomba di Virgilio. Ancor oggi un femore sconosciuto e un po’ di polvere di ossa fanno le veci del celebre poeta.
Ulteriori curiosità :
Solenne traslazione della salma del poeta 1939
Dissacrante sonetto su Leopardi letto da V.Gasman
Il giovane favoloso di Mario Martone
Leopardi su Whipart.it :
Leopardi di Citati
Sempre caro mi fu quest’ermo colle – Considerazioni per un fenomeno inaspettato
Fonti internet :
Giacomo Leopradi, le malattie e i misteri sulla morte e sepoltura
Leopardi e i Napoletani: il nobile sdegno e il superbo rifiuto
Fonti bibliografiche :
Leopardi-Poesie e prose – vol.1 Meridiani Mondadori