Il 2017 sarà ricordato dai tanti fan come l’anno dell’ “impensabile” sequel di Blade Runner. Taccio qui tutte le analisi sul confronto tra il film del 1982 e quello firmato dal regista Denis Villeneuve. Questi si è dovuto confrontare con un cult e ha deciso di adottare un approccio completamente retro-nostalgico; ha puntato su una lentezza di montaggio tarkovskyana, non connaturata ai ritmi delle odierne fruizioni. Grande impatto visivo che rimanda all’immaginario degli anime, tutta la tetraggine di un futuro ben poco desiderabile. Qualche falla nella sceneggiatura c’è, ma la chiave adottata è apprezzabile. Insomma il grande impegno economico e lo sforzo della produzione hanno avuto un esito estetico apprezzabile, e pazienza se, a quanto pare, il successo commerciale non sia stato conseguenziale. Blade Runner 2049 aveva un profondo forziere a cui attingere: gli “universi che cadono a pezzi” creati dal Philip K. Dick e tanta altra letteratura.
Gli androidi sognano il cinema e il cinema sogna loro
Esiste davvero tanta cinematografia “dickiana”: nel senso che molti registi e sceneggiatori, pur non partendo dichiaratamente da un’opera di Dick, hanno saccheggiato a piene mai il suo ricco immaginario. Accade ogni volta che in questi film troviamo la costruzione di mondi illusori, di realtà alternative, di futuri distopici al massimo grado, di tutto un ventaglio di oggetti fantascientifici e non solo, combinati tra loro.
A quanto pare Philip Dick non vide nessuno dei film ispirati ai suoi film. Per quanto riguarda Blade Runner, come molti sanno, esso è la infedele trasposizione di Do Androids Dream of Electric Sheep? (“Il cacciatore di androidi” in italiano, 1968).
Nel 1982 quando la prima versione del film arriva nelle sale di tutto il mondo, Dick era già decollato per uno dei suoi universi lontani.
Pur non essendo stato invitato a nessun livello dalla produzione a partecipare alla realizzazione del film, lo scrittore ne aveva letto la sceneggiatura e se n’era detto deluso, ma per le seguenti ragioni:
“[…] Ridley Scott, che ha diretto Alien e ora ha intenzione di realizzare un film da 15 milioni di dollari tratto da mio romanzo […], ha confessato in una intervista […], di aver ‘trovato il romanzo di difficile lettura’, malgrado il romanzo sia apparso in edizione economica a diffusione di massa. All’opposto, io sono riuscito a leggere la sceneggiatura piuttosto agevolmente […]. È stato terribile. Non ha assolutamente nulla a che vedere con il libro. Paradossalmente, in un certo senso è meglio così. […] Il mio romanzo diverrà una livida, gigantesca accozzaglia di androidi in scadenza che uccidono gli umani, nel mezzo di un caos mortale – il tutto estremamente emozionante da vedere. Al confronto il mio libro risulta noioso.”*
Questo intervento è estrapolato da un articolo a firma dello stesso scrittore apparso in una rivista di sci-fi; continua, un po’ confusamente, come un sfogo, e sullo sfondo resta un senso di impotenza dello scrittore che si confronta con il cinema dei “megadollari”, con tutto il suo arsenale di effetti speciali.
Dick riconosce la forza di queste produzioni, che sta nell’abilità di esaltare il pubblico. I suoi romanzi sono da lui percepiti come qualcosa di più intimista; sono più ricchi di dettagli e dialoghi, che pur sempre rimandano ad arcane visioni.
Tuttavia è un peccato che non sia riuscito a vedere il film che ha appassionato sconfinate platee. Poteva egli immaginare che Scott avrebbe realizzato, al di là degli effetti speciali, un qualcosa di così visivamente denso? Una messa in scena che a suo modo rifonda l’immaginario di un’epoca, con quella colonna sonora, con quegli androidi – che qui si chiamano “replicanti” – e che non assomigliano per nulla a “calamari giganti” (quelli di Alien)?
Ammettiamo pure che Blade Runner di Ridley Scott sia rimasto lontano dai veri propositi di Dick, è possibile che nel film di Villeneuve ci sia stata la volontà di riscoprirli e rigenerarli in qualche modo, nel suo minor tasso d’azione, nella sua trama che si dipana come una lenta riflessione/contemplazione?
L’umanizzazione dell’androide e la disumanizzazione dell’uomo: questa è l’essenza primordiale della storia, dell’incontro tra Deckard e i replicati che si legano a lui e che lui deve “terminare” in modo inesorabile.
Rachel, l’androide che porta la vita
“Memories of Green” la potete ascoltare nella colonna sonora di Blade Runner 1982. La composizione di Vangelis, intrisa di una (“paradossale”) nostalgia, che accompagna una carrellata di ricordi artificiali, tutti in quelle foto dal gusto molto anni quaranta/cinquanta.
Mentre si crea un passato per chi non ne ha – trattandosi praticamente di una macchina biologica, o come avrebbe detto Dick, di un “robot umanoide” – si tenta di conservare senza risultati quello che non c’è più.
Il film di Villeneuve ci lascia intuire il fuori di tutto questo, qualcosa di nuovo e che espande e completa la visione, al di là dalla megalopoli caliginosa e piovosa.
Ecco allora che Wallace, il nuovo capo della Tyler Corporation, prova a costruire un androide/replicante in tutto e per tutto uguale a Rachel. È essa stessa diventata più “autentica” di quella pianta o di quella pecora (romanzo) che viene custodita come reliquia vivente, avendo misteriosamente acquisito in sé la forza di generare vita. Ma questo personaggio, che abbiamo imparato ad amare nel primo episodio, era stato creato da Dick con tutti i crismi della sua fragilità esistenziale e della “prova d’autore”. Nel romanzo, infatti, Deckard, che gli dà la caccia, elimina due repliche di Rachel. Nel film di Villeneuve, Wallace, ne costruisce ed elimina due tentativi.
Nella finzione cinematografica odierna Villeneuve trova un altro corroborante riferimento letterario in Fuoco pallido di Vladimir Nabokov. L’Agente K (anche qui, riferimento kafkiano?) ne ha una copia e mi è capitato di leggere un paio di articoli su blog americani che paragonano K al personaggio Kinbote. In questo ancora una volta la labirintica concezione dickiana della realtà, ovvero, del cosa è reale e cosa non lo è: esisto? Sono io il creatore dell’opera o io stesso l’opera?
Rachel
Un lessico dickiano per disinnescare un orribile futuro
“In alcuni dei miei racconti e romanzi, ho parlato di androidi, robot o simulacri, il nome non ha importanza: ciò a cui mi riferisco sono le costruzioni artificiali dall’aspetto umano e, di solito, animate da qualche sinistro proposito. Probabilmente per me era scontato che se una di queste costruzioni – un robot, per esempio – avesse avuto uno scopo positivo non avrebbe avuto bisogno di cammuffarsi. Oramai, però, questa idea mi pare superata. Queste costruzioni non imitano gli umani: per molti aspetti fondamentali sono già umane. Non stanno cercando di fregarci per qualche scopo a noi ignoto: seguono semplicemnte i nostri stessi percorsi al fine di superare problemi comuni.” (Ph.K. Dick, “L’androide e l’umano”, in Mutazioni, Feltrinelli ’97)
Per approfondire il vasto ventaglio tematico, citiamo qui un paio di testi degni di nota. Prima di tutto la fonte di ogni altra lettura: Divine invasioni. La vita di Philip Dick, di Lawrence Sutin, saggio biografico scritto negli anni ottanta e pubblicato in Italia da Fanucci (editore che in questi ultimi anni ha fatto molto per la riscoperta del nostro scrittore in Italia).
A questo aggiungerei dal panorama degli studiosi e cultori nostri connazionali: Philip K. Dick, la macchina della paranoia (2006), di A. Caronia e D. Gallo, editore Agenzia X, una vera e propria “enciclopedia dickiana”; e infine Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick (2001), di Francesca Rispoli edito da B. Mondadori, in cui forte è il richiamo alla trasposizione cinematografica dei vari temi e intrecci.