La natura è, nei libri del vecchio Cormac McCarthy, un vero e proprio personaggio ed è in primo piano; la natura, violenta o esuberante, ma comunque mai consolatoria.
Nel suo primo romanzo Il guardiano del frutteto (The Orchard’s Keeper) del 1965, McCarthy “trasforma il sud rurale nell’eterno regno del mito”; e non a caso questo periodo degli esordi letterari coincide con un viaggio in Irlanda, alla ricerca delle sue radici.
Le montagne e i suoi selvaggi abitatori, il rapporto tra vecchi e giovani, la morte e la sfida, la frontiera: in questo primo romanzo si intravedono le linee di sviluppo tematico di questo grande scrittore.
Scandagliando i fondali: Suttree
Per la critica Suttree è il capolavoro di McCarthy. Dato alle stampe nel 1979, questo è probabilmente il suo romanzo più ambizioso e ci ha messo un bel po’ a essere tradotto e pubblicato in Italia (trent’anni, editore Einaudi).
Nato a Rhode Island nel 1933, nella città di Knoxville in Tennesse McCarthy ha trascorso alcuni anni in gioventù. Ed è proprio in questa città e nei suoi sobborghi (McAnally Flats) sul finire degli anni Quaranta, che ha voluto ambientare la storia di Suttree, e di altri personaggi topici dei bassifondi e di una vita ai margini. Gente dai nomignoli sintomatici, come Harrogate, il “topo di città”, o Hoghead, J-Bone, e gli altri compagni di viaggio e di sventura, più un popolo di ombre di emarginati, negri, chiromanti e checche.
Che nome abbia il rovescio fatale che ha spinto Suttree, per gli amici “Bud”, in una specie di palude, lungo le sponde del fiume Tennessee, alle porte della città di Knoxville, là dove il caos si somma al caos, non è dato saperlo. Un po’ come nel successivo La strada (The Road, 2006) non è dato sapere quale sia stata la ragione del cataclisma che ha spazzato via vegetazione e animali dalla faccia della terra. Harrogate è un giovanissimo svitato e un po’ deviato, che con i suoi miseri stratagemmi cerca di stare a galla. Suttree lo incontra durante un breve soggiorno in carcere e per un bel po’ uno strano rapporto, intriso di ironia, disperazione e solidarietà, lega i due.
Carattere sensibile, dotato di umanità, Suttree ha rinunciato a una famiglia e ai suoi agi, e cerca di vivere di pesca. Il fiume è un po’ un luogo topico della tradizione letteraria nordamericana e ogni cosa nella realtà di Suttree e in ciò che gli succede, attraverso il linguaggio fortemente evocativo di McCarthy, forma quel fondale poetico tormentato, brulicante di vita ma anche di dolore, che richiama già fortemente gli scenari apocalittici degli ultimi romanzi.
Il realismo si imbeve a tratti di un gorgogliante lirismo, e la narrazione rigorosamente in terza persona, è fatta di azioni e descrizioni su cui si tesse un’esistenza e il volto di un’epoca, seppure – secondo la tendenza dell’autore a creare uno spazio umano che si estende oltre la società -, non ci sia nessun riferimento a fatti storici.
Lasciato il suo sito sul fiume, spinto da una inquietudine profonda e dall’istinto alla fuga e alla solitudine, Suttree va alla deriva per territori segnati e città; sulla sua strada incrocia altre strade, fa innamorare di sé una bambina, si fa mantenere da una puttana, è costretto suo malgrado a soccorrere qualcuno nel portare a termine un “colpo” scellerato. La morte arriva a lambire le sue ossa e quasi ha il sopravvento, però il suo resta un vagabondare senza requie.
Vengono alla mente alcuni versi di T. S. Eliot in The Waste Land:
The river sweats
Oil and tar
The barges drift
With the turning ride
Quel che resta della frontiera
The Border Trilogy, la “Trilogia della confine” di Cormac McCarthy culmina in un imperdibile duello che non è solo la resa dei conti tra due uomini, ma tra due culture, tra due modi di vivere la frontiera, le sue risorse, il suo richiamo. La frontiera è qui, a differenza di Meridiano di sangue (“Blood Meridian”, 1985) un mito che si trascina nei territori nordamericani nella prima metà del Novecento.
Billy è oramai un vecchio vagabondo; attraversa gli Stati Uniti senza una meta, vive alla giornata, mangia e dorme dove può come può. Confonde sempre di più la realtà con i sogni e questo lo fa andare avanti con una narrazione che trova di tanto in tanto casuale uditorio. Quando era più giovane egli aveva dei compagni e tutti insieme facevano gli allevatori di cavalli. Alcune di quelle persone con cui condivideva il pane e il tetto erano già anziani ed esperti, altri erano più giovani e spesso avventati. Come John Grady Cole: era solo un ragazzo quando attraversò ancora una volta la frontiera per andare a vendicare la sua fidanzata, una prostituta messicana. L’inizio della fine, anche per Billy.
Stiamo parlando di Città della pianura (1998), che chiude la “Trilogia”, inaugurata nel 1992 con Cavalli selvaggi. La vita dei cowboy tra gli anni ’40-’50 nel Sud-ovest, le incursioni nel vicino Messico, le vicende sanguinose di una realtà infestata da assassini e transfughi, gli attriti tra due culture così diverse che si attraggono e si respingono a un tempo, animano le lunghe naturalistiche descrizioni del quotidiano, disseminato di tracce storiche e simboli. È lo stile di questo scrittore che vive in un costante sentimento di perdita e la coscienza di un passato difficile che torna e si ripente, in un’epoca in cui tutto è in trasformazione.
McCarthy sarà ricordato come un grande scrittore. Ha indagato la solitudine come pochi altri. Sa conferire alla violenza un ritmo, ma anche una intangibile finalità. Apparentemente la giustifica, come ciò che vogliamo, da uomini, sentirci dire; come quando la paura ci spinge per un incomprensibile meccanismo psicologico verso le lame dell’avversario. In realtà stiamo difendendo qualcosa, probabilmente ciò che confusamente amiamo davvero. McCarthy ci fa sentire l’oscuro brulicare nell’anima dei suoi personaggi, senza mai spendere una parola sulle loro sensazioni. Noi li seguiamo, spesso siamo accanto a loro, e partecipiamo: il cuore comincia a battere più forte quando il ritmo si intensifica, quando tra le righe delle cupe descrizioni di un mondo e di una natura ostile percepiamo che tutto si sta per compiere, che il giovane e avventato John Grady non si dà scampo. Ciò che deve fare è vendicare e rivendicare una unione che non ha trovato compimento: l’amore per una prostituta messicana, perdipiù epilettica. È come una cavalla che gli appartiene e che è fuggita dal branco; è la sua vita stessa in mezzo a un deserto, e lui è disposto a girare per giorni dall’alba al tramonto pur di trovarla.
Gli amici di Billy salvano i cuccioli di un branco di cani selvaggi che hanno appena sterminato. E poi ai cavalli parlano; per un messicano un cavallo è solo una cosa e un cowboy è soltanto un “vaccaro”. Nel cruento duello finale, Eduardo – il sardonico, feroce gestore del bordello – chiede al giovane Grady perché sia venuto lì a morire: solo un vaccaro può venire a cercare la morte per amore di una puttana. Eduardo è un piccolo imprenditore, un malvivente eloquente ed elegante, ma molto cosciente di ciò che è e delle regole del suo mondo: un mondo pieno di forme e riti, ma sotto di essi la vita scorre banale e priva quasi di un vero valore. Un paese, il Messico, dominato dall’indigenza più nera, dove però – come Billy aveva detto al suo giovane amico una volta –, puoi trovare rifugio e copertura presso genti che non posseggono nulla e non fanno domande.
Ma i racconti di Billy su quel paese così diverso e misterioso sono lontani e altrettanto incomprensibili, e il giovane Grady tace tutto il tempo in cui il nemico disserta su questo e quello; è concentrato sulla lama del suo coltello, ha tagliato i ponti, aspetta dai colpi di un assassino esperto e inflessibile quel dolore lacerante che darà un senso al tutto. Probabilmente non crede nemmeno lui di spuntarla, ma forse pensa e s’illude che nell’agonia si nasconda un qualche potente anestetico. O forse sta solo calcolando il modo per chiudere per sempre la bocca di quel chiacchierone di Eduardo.
La strada e la luce dopo l’apocalisse
Con La strada (Einaudi 2007), McCarthy bissa il successo del precedente Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2005, ed. Einaudi), riuscendo, di nuovo, a plasmare il prepotente magma narrativo che sgorga da una poetica intrisa di immagini di decadenza, fondate, questa volta, su un topos forte dell’immaginario contemporaneo: un apocalittico day after. Da qui muove una visione di ultimo approdo della razza umana oramai rimasta sola: il vagabondaggio post-atomico di un padre e di un figlio, in una nera wasted land.
Il mondo, seppur distrutto, è fatto di spazi da conquistare ed è tutto fuori dal tempo, nel senso che è oltre la fine della storia. La terra da quel “grande fuoco” rimasto fuori campo, che l’ha ridotta in cenere, è ripiombata in una sorta di preistoria. Sembra non esserci possibilità di salvezza. Di quel fuoco si sa solo una cosa: è sulle spalle dell’uomo, per tutte le sue colpe. Un monito terribile riecheggia ad ogni passaggio, quando l’uomo e il bambino che non si vogliono arrendere alla disumanizzazione, scavano trai rottami in cerca di cibo, mentre la terra è oramai infeconda.
Padre e figlio lungo il loro cammino, nel tentativo di tenersi in vita “secondo natura”, rigettando antropofagia e altri cruenti abusi, testimoniano un’idea di dignità in cui forse si annida la speranza. Essi cercando sostentamento e risorse soltanto nel mucchio di cose prodotte dagli uomini e lasciate là nei secoli a marcire. Lungo la strada non c’è più segno della civiltà. La civiltà è svanita, arsa da un fuoco distruttore, con quella miriade di piccole, vuote icone che erano divenute la sua spenta facciata.
Nemmeno il padre e il figlio hanno più un nome.
In un certo senso McCarthy si addentra nel territorio “immaginativo”
che ha sempre affascinato i più attenti osservatori della sua opera; porta alle
estreme conseguenze quell’aurea di dannazione che pervade la vita dell’uomo
moderno, giungendo addirittura al capo opposto di una ipotetica linea
temporale, laddove si possa riaffermare l’indissolubilità dei vincoli. Ma
questa indissolubilità non è fatta di parole: essa è da strappare alle fauci di
foschi orizzonti, con estremi atti di coraggio e d’amore. Si veda il bellissimo
finale, dove tutto si compie, dando un senso, che si credeva smarrito,
all’esistenza.