La colonna infame. Salute pubblica e giustizia al tempo della peste

In La storia della Colonna infame, testo che Alessandro Manzoni diede alle stampe nel 1840, troverete un significativo esempio storico-letterario del “dagli all’untore” in tempi di epidemia. Di una giustizia non più al servizio della ragione, ma dei fantasmi prodotti dalla paura e della maldicenza. E’ infatti alquanto rischioso per la società voler trovare subito un colpevole, un autore di trame di morte. È un grosso pericolo per la convivenza, per la salute mentale e la giustizia.

La lapide che ricorda il caso di Giangiacomo Mora a Milano.

La giustizia come vendetta

“Che cosa non dirà o non farà mai un uomo
per sfuggire ai dolori del tormento?
Colui il quale il giudice ha voluto torturare
per non farlo morire innocente,
lo fa morire innocente e torturato.”


Questo detto di Michel de Montaigne, riportato anche da Franco Di Bella in un interessante volume edito di recente dalla Odoya, e intitolato Storia della tortura, mostra come anche all’epoca dell’illustre pensatore (e siamo nel XVI secolo) la terribile pratica fosse considerata ingiusta oltre che infruttuosa ai fini dell’accertamento della verità.
Eppure se ne faceva – e se ne fa – largamente uso.

Nella Milano del ‘600 fu eretta in un quartiere popolare dalle parti di Porta Ticinese, laddove c’era la casa di tal Giangiacomo Mora, una colonna a ricordo di una terribile vicenda, documentata dai tribunali d’allora. Ma ciò che ne resta non è la colpa presunta di due sventurati, bensì l’infamia della tortura e dei magistrati che se ne servirono.
Merito del Manzoni che in Storia della Colonna infame ci narra una storia che lascia sgomenti, oggi, esattamente come successe a lui, l’autorevole uomo di lettere, che attraverso il racconto di quel secolo “spagnolo” parlò agli italiani del suo tempo.

Siamo all’epoca in cui il Manzoni si dedicava con passione alle ricerche sul Seicento che avrebbero dovuto fornire l’ambientazione per il suo famoso romanzo storico. Si imbattè prima nelle Osservazioni di Pietro Verri, e dunque nella vicenda di presunti untori e del tragico processo che li vide vittime. Dunque, una prima osservazione di carattere generale è questa: così come i Promessi sposi rappresentano la notevole messa in scena delle questioni storiche e politiche che viziavano la società italiana, la Colonna infame, va oltre, assurge a piccolo grande documento di condanna di uno dei maggiori mali dell’umanità.

Caccia all’uomo

“Se in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione…”, afferma il Manzoni, chiedendosi conseguentemente se esistano forze che, aldilà del libero arbitrio, spingano l’uomo a fare il male. (Una domanda viva dato il ripetersi di certe pratiche autoritarie nel nostro mondo).
La mattina presto, il 21 giugno 1630, una “donnicciola” crede di assistere all’apparizione dell'”untore”: un losco figuro che – non si chiarirà mai per quale perversa ragione – con mani impiastricciate di non so che sostanza, diffonde il morbo in città, imbrattando mura.
La donna mette “il campo a rumore”; appare già noto il meccanismo della paranoia che nasce dalla non conoscenza delle vere cause del morbo.
Viene dunque individuato e acciuffato un uomo, il “commissario di sanità” Guglielmo Piazza; interrogato, il malcapitato mostra di non sapere assolutamente di cosa si stia parlando. Egli verrà accusato sulla base di un ragionamento di questo genere: non è “verisimile” che egli non sappia che esistano gli untori, tutti sanno che sono cagione della distruzione che ricorre in città.

Si passa dunque ai crudeli metodi che fanno al caso di un processo ingiusto. Giudici assetati di verità riescono così ad estorcere il nome d’un altro presunto colpevole, il Mora, un barbiere, uno che il torturato manco conosce. Si dà così l’avvio a una tragica catena d’iniquità.
Manzoni non manca di effettuare una puntuale disamina del sistema legislativo, rivelando le logiche che sorreggono il procedimento a cui sono sottoposti gli imputati e che prevede l’uso dei “tormenti” al fine di estorcere la confessione.
Ma il senso di un’umanità perduta prende ogni volta il sopravvento, e lo sdegno scorre come un fiume vitale dalla penna dello scrittore, che si lega così al partito degli illuminati, dei Verri, dei Voltaire, dei Beccaria.

I supplizi dell’umanità

Le cronache dell’epoca ci parlano dei supplizi a cui i due condannati andarono incontro fino all’esecuzione della pena. La condanna a morte e alla dannazione eterna avvenne per le strade di una città stremata dalla peste. Il popolo aveva trovato qualcuno su cui sfogare, senza il minimo sentimento di pietà, la disperazione di quei tempi bui.

“La colonna infame fu atterrata nel 1778” e nell’uso di quel verbo, “atterrare”, il Manzoni sembra voler condensare tutto il fastidio per le devianze di giudizio che avevano investito l’intera società fino a che un dubbio di empietà dei giudicanti non avesse preso a farsi strada.

(Resta a testimonianza la lapide con l’iscrizione, conservata nel Castello sforzesco, v. foto).