È possibile realizzare cinema hard che abbia una qualche valenza estetica oggi? Female Touch di Morgana Mayer è una risposta affermativa e la conferma di una tendenza che arriva dai festival cinematografici più alternativi d’Europa, ovvero l’affermazione di una nuova politica dei corpi e di una geografia del desiderio che esula dal triste prodotto da sexy shop e da una visione pornografica che nell’era di internet appare disarticolata da qualsivoglia aggancio narrativo e/o concettuale. C’è stato un tempo, nei gloriosi anni Sessanta e Settanta, in cui diversi cineasti come Gerad Damiano, Radley Metzger, Alex De Renzy o Lasse Braun sognavano di sdoganare l’hard come un genere tra i tanti dell’industria cinematografica, immettendo valori artistici tutt’altro che peregrini nelle loro opere, salvo poi essere sconfitti dalla repressione moralista, che ha confinato l’hard in un mondo a parte; ma fuoriuscito dalla porta principale, il cinema hard è rientrato nel circuito ufficiale dalla finestra, trasformandosi in linguaggio che come un virus ha inoculato le opere di tanti registi controversi ed ammirati, da Catherine Breillat a Gaspar Noè, da Lary Clark a Lars Von Trier, solo per citarne alcuni.
Female Touch appartiene al “controcampo” di questo cinema d’autore, ovvero a quelle opere fieramente e pienamente hard che vogliono anche dire qualcosa del mondo in cui viviamo, dei desideri e degli istinti più profondi, proponendosi anche da un punto di vista artistico come un oggetto di valore, in cui lo sguardo registico ha un senso. Post porn è l’etichetta che alcuni critici d’oltreoceano hanno appiccicato a questo tipo di produzione, e che trova spazio anche in numerosi festival cinematografici non appartenenti al carrozzone dell’hard, in un’ibridazione tra i due mondi che appare sempre più vischiosa. Female Touch ha un’estetica in antitesi ai coadiuvanti onanistici in cui ci si può imbattere sul web: le pratiche sono tutte alquanto eterodosse, e mostrate senza il tipico noioso climax figurativo imperante, l’uso di dissolvenze incrociate e fluidità di montaggio dimostrano una precisa consapevolezza estetica di Mayer, vi è una negazione quasi sistematica del feticismo del dettaglio fisico in primissimo piano, e quando c’è la mdp spiazza andando altrove (una palpebra, il lobo di un orecchio, al massimo le labbra ammantate di rossetto), così come un tappeto musicale minimale e ossessivo, quasi disturbante a tratti, crea una distorsione plateale rispetto alla messa in scena convenzionale degli amplessi.
Female Touch è antinarrativo nella struttura – una donna di cui non vediamo mai il volto si masturba in una vasca da bagno, e si susseguono le sue fantasie – ma non dal punto di vista concettuale: la dedica in esergo ad Alberto Cavallone indica chiaramente la direzione, quella di un cinema lucidamente e consapevolmente politico nel modo in cui lo intendeva il geniale e misconosciuto regista milanese. Più che alla trilogia girata con lo pseudonimo di Baron Corvo a fine carriera, viene in mente quella stella nera del cinema italiano settantesco che è stata Blue Movie: negli accostamenti arditi di montaggio, in certi simboli aggiornati alla nostra era (il logo di Facebook al posto delle lattine di Coca Cola), in una messa in scena scarna e visionaria al tempo stesso ritroviamo l’ubi consistam cavalloniano dentro il film di Morgana Mayer, che cita anche Joe D’Amato e Lucio Fulci, vecchi pallini dello sceneggiatore Lucio Massa, una delle menti dietro questa operazione.
Ma Female Touch ha anche una sua personalità ben distinta, che si palesa nel portare avanti un discorso femminista e pansessuale in contrasto con lo sguardo del “maschio eterosessuale adulto” come citato in uno dei rari dialoghi del film, un discorso che accomuna la regista ad altre nuove realtà femminili che prolificano nella visione post porn, o pienamente porno (le etichette spesso sono limitanti), da Erika Lust a Ovidie, dalle esperienze collettive di Dirty Diaries e X Femmes in Scandinavia e Francia fino ad arrivare alle nostrane Ragazze del Porno Monica Stambrini e Lidia Ravviso: ma lo sguardo di Mayer è più alieno, obliquo, meno carezzevole e morbido nell’uso delle luci e dei corpi messi in scena, corpi troppo magri o troppo grassi, oppure sessualmente posti in alterità rispetto al porno etero di massa. Che sia una lenta sequenza di shibari – la tecnica giapponese di legatura con i nodi – un’ammucchiata tra televisioni con effetto neve, manichini e fiori, oppure con carne cruda (c’è aria di Luigi Zanuso, anch’esso prodotto da Massa, in più di un frangente), o un’eretica scorribanda erotica con figure e simboli religiosi, Morgana Mayer sembra portare avanti questa nuova poetica del desiderio con grande coerenza teorica e politica, e quando nella seconda parte, una volta indossata dalla “invisibile” protagonista una maschera di lattice nero a lasciarle scoperta solo la bocca e gli occhi, il film quasi tracina nel fantastico, con il personaggio che diventa improvvisamente partecipe dei partouze, sbucando dai margini dell’inquadratura come una presenza fantasmatica, abbiamo noi spettatori l’impressione di trovarci davanti davvero a un film con tutti i suoi crismi, senza bisogno di etichette e distinzioni preventive. Al netto dei responsi soggettivi, non c’è dubbio alcuno che Female Touch di Morgana Mayer sia un’opera artistica degna di questo nome: sì, è possibile fare un cinema hard che abbia valenze artistiche ed estetiche anche in questi tristi anni Dieci del millennio in corso, che può guardare alla pari gli altri generi narrativi senza imbarazzi, timori reverenziali e sensi di colpa.