Un corpo che cade dalle torri in fiamme: un’immagine indimenticabile per milioni di persone. Da quella terribile visione che ci appartiene, muove il romanzo di Don DeLillo. C’è l’anima di una città che va in frantumi. Da qui riemergono nel quotidiano paure oramai sopite.
A. Portelli scrive in “I rifiuti, la storia e il peccato in Underworld di Don DeLillo”, Canoni americani, Donzelli Editore, Roma 2004: “Il disordine della città e la turbolenza delle memorie si combinano nel bisogno di controllare il passato.”
Nel suo romanzo pubblicato in Italia nel 2008, L’uomo che cade (Falling Man), il newyorkese Don DeLillo, plasma ancora una volta il suo linguaggio sugli scenari della New York contemporanea, e gli riesce, ancora, di condensare in un unico motivo ciò che sta tra il fondo sudicio della vita cittadina e i grandi sommovimenti della storia nel suo compiersi.
L’interconnessione tra la vita dei personaggi e il cataclisma dell’11 settembre, con i suoi possibili antefatti, è resa in una sottile tessitura narrativa impastata di memoria e insorgenze solipsistiche. Un libro pensato, però, naturalmente privo di facilonerie apocalittiche; una scrittura maturata ben dopo i noti fatti.
La storia si apre nelle polveri, nella gassificazione, nel caos che seguono allo schianto degli aerei nelle Twin Towers. Da questa immane produzione di detriti emerge la figura disorientata di Keith Neudecker. In mano si ritrova una valigetta; tramite questa conoscerà Florence che di quella valigetta è la proprietaria. Florence è una donna di colore, di mezza età; come Keith era in una delle Torri. Vive sola e nello shock perdurante del crollo; con Keith avrà qualcosa di simile a una relazione: in un fugace scambio di ricordi e umori i due azzardano la ricomposizione di un quadro andato in frantumi, ma non vanno oltre.
Per Keith ritorno alla normalità è ritorno alla famiglia e al poker. Chiudersi nei templi del gioco d’azzardo in giro per gli Stati Uniti, gettandosi alle spalle una carriera d’avvocato, con il ricordo di quelle serate al tavolo verde con gli amici scomparsi. Nel rendere queste figure in una delle loro serate, DeLillo produce alcune pagine memorabili per via del suo riconosciuto talento da commediografo.
Scampato alla morte, Keith torna a casa, dopo una breve separazione: ha una moglie, Lianne, e un figlio di pochi anni, Justin. Lianne è per molti versi il personaggio centrale del libro. Per via della sua sensibilità, dei contrasti che vive, soprattutto con l’ingombrante figura materna. Mentre Keith appare impermeabile e impenetrabile, un satellite in orbita, Lianne è un nervo scoperto.
Ci sono poi delle figure che rappresentano un mondo che vive, minaccioso, aldilàdella comprensione dei due, che in tal senso impersonano le ansie e i vizi di un’America colpita. Al nome di queste figure DeLillo affida la scansione dei tre tempi narrativi del romanzo.
Parliamo del fantomatico “Bill Lawton” (che suona come sinistra americanizzazione del nome del terrore, Bin Laden), personaggio creato da Justin e dai suoi amichetti. I bambini passano il tempo a scrutare il cielo in attesa degli aerei di Lawton, facendo crescere così la paura in Lianne.
C’è Martin, il mercante d’arte amante di Nina, la madre di Lianne. Si chiama in realtà”Ernst Hechinger” ed è un tedesco: ma soprattutto egli è la vecchia Europa, vecchio e ostile insieme di nazionalismi e socialismi violenti, un alleato bifido che dice di averne abbastanza degli Stati Uniti odierni. Martin è un ex fiancheggiatore dei movimenti armati degli anni Settanta; agli occhi di Lianne c’è un fil rouge che lega il terrorismo odierno alle passate esperienze (ad esempio, le Brigate Rosse). Quando al funerale di Nina, Martin/Ernst comincia a spiattellare la sua verità, Lianne non riesce ad opporgli apertamente la sua diffidenza, solo perché quell’uomo rappresenta l’unico e ultimo legame vivente con la madre, una donna che fu al tempo stesso modello e rassicurante spartiacque culturale.
C’è poi “David Janiak”, un artista performativo conosciuto come Falling man, uno che di tanto in tanto appare in qualche angolo della metropoli per mettere nuovamente in scena la caduta tragicamnete composta vista alla Tv, su uno sfondo di grattacieli deflagranti. Janiak si appropria di uno stile, buttandosi già con una imbracatura ogni volta più leggera e invisibile.
Il ruolo dell’artista resta dunque uno dei luoghi ricorrenti dell’opera di DeLillo. L’arte che misura il grado di reificazione a cui è giunto ogni aspetto della realtà contemporanea.
Ci riferiamo allo junk che diviene arte in Underworld, che si traduce in altro ancora nella trama giallistica di Running Dog (romanzo della fine degli anni settanta, di recente ripubblicato da Einaudi).
Qui però s’avverte qualcosa di nuovo che può definirsi solo tramite la portata e la tragicità dell’evento. C’è la sensazione che DeLillo riesca a cogliere uno stallo, un movimento verticale, e di caduta, così ben rappresentato da Janiak. Non c’è nulla più, ad esempio, del viaggio inconcludente del miliardario ipocondriaco Eric Packer (Cosmopolis, Einaudi, 2003) attraverso le gore della metropoli contemporanea, decadente e postmoderna.
Una conferma verrebbe dalla circolarità del racconto.
C’è infatti un’altra figura che sfugge al controllo è culturale voglio dire, e non soltanto dei sistemi di sicurezza. È l’uomo Hammad, partito dall’Iraq con una missione, quindi cellula silente annidata in un appartamento di Amburgo. La sua guida è un uomo pieno d’odio e privo di desiderio sessuale o sentimenti, Mohamed Atta.
Hammad è in bilico tra le tentazioni occidentali e una voce che oramai è forte dentro di lui, caricatasi nel terrificante silenzio del deserto in cui è nato, divenuta imprescindibile nella condivisione e comunanza d’intenti che lo legano ai suoi fratelli.
L’aereo imbocca il “corridoio dell’Hudson” e capiamo che il suo destino si è già compiuto: da qui in poi DeLillo con tutta la forza della sua scrittura ci precipita nell’impatto in cui Hammad, passato e presente, fonde con migliaia di altre persone, entra nella vita di Keith e Lianne, passato e presente.