Clint fa 90!

Una volta ho letto su una rivista specializzata che Clint Eastwood sarebbe un personaggio “complessivo”. Non so bene ancora oggi cosa questo aggettivo voglia dire. Certo, nei suoi ultimi film, la presenza dell’attore e regista californiano (oltre che musicista), s’è fatta totale, ingombrante, e a tratti, permettetemi, imbarazzante. Si tratta di un vecchio uomo di cinema che ha prodotto tanto, che anzi negli anni ha intensificato la sua produzione (ricordiamo che la Malpaso è la casa di produzione di sua proprietà). Ma qui si segue una nostra traccia, diciamo una suggestione, lasciando da parte buona parte della ampia filmografia, soprattutto quella più recente. Una filmografia in cui sono stati affrontati gli enormi temi dell’attualità, della nazione, sempre con tocco personalissimo.

Nelle “questioni di famiglia” sono via via confluite le “questioni di sangue” (definiamole così) sulle quali in passato, a partire dagli anni settanta, Clint ha costruito il suo cinema più avvincente. Riconsiderando questa lunga carriera, Mystic River (2003), appare oggi una specie di “pietra miliare”. Il punto più alto da lui raggiunto, inoltrandosi con le sue storie nel lato oscuro della società, dei rapporti di forza, et cetera (ricordiamo film come Potere assoluto, Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Fino a prova contraria…).

Con Eli Wallach in “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone.

Mystic River. Il sangue non mente

Dunque, il sangue non mente, buono o cattivo che sia: una questione antica, e un rito, al quale il cinema di Clint (mi piace chiamarlo amichevolmente così), ha fatto da altare. L’incapacità di cambiarlo questo sangue, separando una volta per tutte il bene dal male, è il tema di fondo, secondo me, delle storie nei suoi film.

Lui, il nostro cowboy, aveva già deciso, quando quasi cinquanta anni fa, con Brivido nella onotte (Play Misty For Me, 1971), passava dietro la macchina da presa, di mettere il suo accigliato sguardo al servizio di una precisa idea di cinema. La sua aurea di unicità l’aveva già guadagnata in veste di attore – il suo modo di stare davanti alla macchina da presa…carismatico e irritante insieme… – e da regista ha voluto continuare così, facendo tesoro della dei suoi maestri: Don Siegel, Sergio Leone, John Huston.

Senza stare troppo a interrogarsi circa il favore che il vecchio Clint ha, in genere, sempre incontrato in questi anni, e soprattutto in Europa, con Mystic River siamo probabilmente di fronte alla sua opera più ardua e matura; ben prima del suo personale crepuscolo di vecchio disilluso patriota e di gigione malinconico. È un po’ strano, difatti, usare la parola “matura”, riferendosi ad un uomo che allora aveva già 73 anni, con più di mezzo secolo secolo alle spalle vissuto intensamente nel mondo del cinema.
Stavolta un tale riconoscimento non basta; stavolta è la critica americana a venirci incontro e a fugare ogni dubbio: in particolare, la rivista Variety che ha eletto Mystic River miglior film dell’anno 2003. Non ha fatto altro che cogliere il risalto unanime dato al valore artistico del film; risalto riscontrabile su tutta la stampa che conta (dal “New York Times” al “Los Angeles Times”, per dire). È stato apprezzato il rigore e la passione; ha colpito l’intensità che l’uso di mezzi e l’interpretazione degli attori sono riusciti a raggiungere. In sintesi, si può dire che questo film è ciò che ci sia aspettava da Eastwood. E dal cinema.

Sean Penn (Jimmy Markum) e Tim Robbins (Dave Boyle, l’innocente).

Era facile all’epoca considerare questo film come condensato di quegli elementi che venivano a costituire l’“eredità” del cineasta californiano. In realtà questo film, che è uno dei suoi più complessi, non ha esaurito quella forza propulsiva che muove l’ingranaggio cinematografico. In Mystic River tale eredità non è immediatamente espressa – ed è questo anche il fascino dell’opera –, ma sta sopita, ambigua e feroce dietro le apparenze, come l’America di allora, e forse anche di oggi; nelle pieghe di un racconto duro, nelle ellissi colme di significati del film. L’assenza della slanciata e granitica figura di Clint attore, non depotenzia affatto la messa in scena, anzi… Anche maltrattato, scorticato, sbeffeggiato tra le petraie di un deserto – lo ricordiamo nei panni del “Biondo” nel classico di Sergio Leone, Il buono, il brutto, il cattivo – Clint manteneva quella sua maledetta freddezza. Mentre qui Sean Penn, aguzzo e feroce, è un concentrato pulsante di rabbia e dolore perfettamente incarnato.

In questo film, comunque, ha fatto la scelta di rimanere in un genere che conosce bene: il poliziesco, i cui confini vengono puntualmente travalicati. È poi nelle corde della sua personalità artistica la propensione alla ricerca di una verità difficile da afferrare. La qual cosa ne ha già fatto, e alla grande, con le sue contraddizioni, una icona chiaroscurale della società americana. Tuttavia, senza snaturarsi in Mystic River si realizza una delle rappresentazioni del grande dramma di questa società, direi anche del nostro mondo: la possibilità di avere quella giustizia cercata ad ogni costo, pagando un prezzo accettabile in termini morali. In altri termini, ci vediamo la dissolvenza in cui le figure del bene e quelle del male diventano indistinguibili.

Il detective e il cowboy, il solitario e la comunità

Certo gli appassionati potrebbero avvertirla questa assenza. Vi potrebbe prendere la nostalgia per dirty Harry e suoi derivati (parliamo della serie dell’ispettore Callaghan). Era o no, già ai tempi Clint il dinoccolato quanto spietato personaggio dalla battuta greve, ma per certi versi rassicurante?
In Mystic River la ricerca di verità va aldilà del fatto di sangue. Invece di passare per rocamboleschi inseguimenti, scazzottate, salvataggi all’ultimo respiro, oppure, ricerche solitarie che si cacciano nel vicolo cieco di un mondo violento in modo parossistico; si risolve in rapporti di straordinaria tensione, tra uomini, padri, figli, amici, rivelando addirittura un respiro da tragedia greca.

Il cowboy, anche lui, c’è! E snocciola tutta la sua “filosofia del sangue”. Su questa falsariga troviamo Debito di sangue (Blood Work, 2002), che costituisce un singolare richiamo all’altra faccia dell’antieroe eastwoodiano, quello che ha dato il suo sembiante a indimenticabili solitari: qui lo scontro è tra due solitari e la linea sottile tra bene e male lega i due personaggi, ma in uno l’oscurità ha preso il sopravvento e ciò lo condanna.
In Mystic River questa linea è un filo che tiene insieme una intera comunità. E alla fine è trionfo: la parata del Columbus Day sancisce la sacralità del rito di sangue appena compiuto, mentre la brava moglie del vendicatore Jimmy Markum la illustra così bene, al suo uomo, ma anche allo spettatore annichilito dalla fine di un innocente. Oltretutto un amico.

Anni dopo, la storia di un’altra innocente la pugilatrice Maggie del toccante Million Dollar Baby (2005) mostra quanto sia gracile l’orizzonte di valori dell’uomo (qui impersonato da Clint che calza i panni dell’allenatore Frankie Dunn). Il sangue altrui non lava le colpe, le ferite non si rimarginano; ed ecco che raramente al cinema abbiamo visto un finale tanto cupo.

Nei panni di Frankie Dunn, con Hilary Swank (Maggie).

Questioni di stile

In un saggio critico su Clint Eastwood pubblicato nel 2000, il critico Frédéric Sabouraud, giudicava i film del nostro novantenne delle accumulazioni, un mettere insieme, spesso in modo ridondante e pomposo, delle citazioni del già visto. Secondo il critico un altro registro che gli sarebbe caro è il burlesque; “ma anche questo una volta su due non funziona, oppure funziona a metà”. Inoltre, verrebbe qua e là fuori con prepotenza il noto argomento del suo conservatorismo. Come in Bird (1988), dove le giovani generazioni di musicisti sono ridicolizzate nel confronto con Parker e i mostri sacri del jazz.

Negli anni Clint ha sviluppato un modo sempre più personale di fare cinema; ha cercato, con tutti i suoi limiti, di guardare in faccia alle cose della vita. A un certo scivolamento intimista che ci suscita un sorrisino, hanno fatto da contraltare le grandi storie; ma, soprattutto, non dimentichiamo le vette di Mystic River.

Anni fa, in una intervista, egli ebbe a dichiarare: “Se i film che ho fatto con Sergio [Leone] fossero stati realizzati con meno stile, sarebbero stati ben poca cosa, perché non poggiavano su gradi storie, e a me piacciono le storie…”.
Quindi quando avete a che fare con Clint – e ben difficilmente vi siete persi un suo film –…lasciate perdere lo stile.