Chiamami col tuo nome – recensione del film di Luca Guadagnino

È un incantevole idillio amoroso quello che Luca Guadagnino tesse in Chiamami col tuo nome (Call me by your name), titolo conclusivo della trilogia del desiderio composta da Io sono l’amore e A Bigger Splash.

Uscito finalmente in Italia – a un anno dalla presentazione al Sundance e poi alla Berlinale – il film ha ottenuto quattro nomination all’Oscar, tre delle quali pesantissime: film, sceneggiatura non originale, attore protagonista (Timothée Chalamet) oltre alla migliore canzone (Sufjan Stevens – Mistery of love).

Questo successo internazionale diffuso, soprattutto critico (e forte è stato l’endorsement di registi come Xavier Dolan, Pedro Almodovar, Paul Thomas Anderson e Christopher Nolan) è stato accolto nel nostro Paese da eco di entusiasmo, ma anche da polemiche, spesso sterili:

– il film può definirsi italiano, anche se è in effetti una co-produzione internazionale (Italia, Brasile, Stati Uniti e Francia)?

– La componente omosessuale ha ostacolato la distribuzione nelle sale o addirittura la fase di finanziamento del film?

– La stampa nostrana è facilmente salita sul carro del vincitore Luca Guadagnino dopo che, per anni, alla Mostra del Cinema di Venezia lo aveva sbertucciato prendendolo quasi a pomodori in faccia?

– E, soprattutto, non sarà sopravvalutato questo titolo dove non accade praticamente nulla per due ore e un quarto?

Guai a imporre la dittatura del gusto unico, ma si spera che la sindrome del blacklash – della reazione uguale e contraria al consenso – che già tanto male ha fatto a La La Land di Chazelle l’anno scorso, non affligga troppo questo piccolo miracolo cinematografico, che un’occasione se la merita davvero.

Chiamami col tuo nome: recensione del film di Luca Guadagnino

Doveva essere James Ivory a dirigere inizialmente il film, ma la sua versione – più esplicita – avrebbe richiesto più tempo e denaro di quelli a disposizione. Così, da iniziale consulente e location manager Luca Guadagnino, che ha scritto la sceneggiatura insieme ad Ivory e al suo montatore di fiducia Walter Fasano, è diventato il regista dell’adattamento del romanzo omonimo di André Aciman Chiamami col tuo nome (edito da Guanda), affiancandolo al suo impegno sull’atteso Suspiria.

Con un’abile mossa, Guadagnino sposta le vicende dalla ligure Bordighera del libro alla Lombardia: Crema e le sue campagne circostanti – luoghi che il regista conosce bene perché ci vive – Bergamo (le Cascate del Serlio, Bergamo Alta) e Brescia (Sirmione, sul Lago di Garda). Anticipato anche l’anno degli accadimenti: dal 1987 al 1983, in un periodo di transizione importante per l’Italia tra la fine degli anni Settanta e il pieno dispiegarsi degli Ottanta in un clima di rallentamento dei freni inibitori.

Siamo dunque nell’estate del 1983, all’alba del primo governo Craxi con Beppe Grillo che fa capolino dal televisore. “Somewhere in Northern Italy”, nella splendida villa dei Perlman, ebrei discreti, come amano definirsi, famiglia poliglotta, colta e aperta, arriva l’americano Oliver (Armie Hammer), dottorando ebreo scelto per fare da assistente per sei settimane al capofamiglia Samuel (Michael Stuhlbarg), docente di archeologia. Chiamami col tuo nome è la storia dell’attrazione e dell’innamoramento tra Elio (Timothée Chalamet), il 17enne figlio dei padroni di casa, e il 24enne Oliver in uno scenario volutamente libertario e a-problematico, dove il mondo esterno resta in larga parte escluso.

Abbracciando pressoché sempre il punto di vista di Elio – aderendo così al romanzo scritto in prima persona – Guadagnino costruisce una sinfonia sulla vertigine del desiderio ma soprattutto sull’accettazione e appropriazione dell’altro – in un passaggio che arriva allo specchiamento – come tappa imprescindibile per la formazione di sé. Lo fa con una messa in scena che, pur calata in un contesto molto preciso in termini di riferimenti all’attualità politica, musica, abbigliamento, oggetti, raggiunge una sorta di sospensione del tempo e dello spazio che assicura l’universalità di quanto viene mostrato, chiamando direttamente in causa la memoria e il vissuto dello spettatore, ben al di là dell’omosessualità della relazione. Il regista si prende il tempo necessario per dare respiro a una narrazione che procede per episodi, gesti, movimenti in sé poco significativi, ma decisivi per comprendere le fasi di studio, allontanamento e avvicinamento che Elio e Oliver vivono sotto gli occhi di genitori e amici.

In questo senso è mirabile come il regista nato a Palermo renda tangibili i turbamenti, i ripensamenti e le emozioni dei suoi protagonisti più che attraverso i dialoghi tramite la prossemica, l’interazione che Elio e Oliver tengono tra loro e negli spazi che condividono all’interno dell’architettura centrale del film – Villa Albergoni, la casa dei Perlman – così come nelle assolate e deserte vie di campagna da percorrere in bicicletta, e in tutti gli altri luoghi chiave del film. 

 

Chiamami con il tuo nome, recensione del film di Luca Guadagnino

 

L’immaginario classico entra in modo potente nella macchina simbolica che anima il film, definendo il terreno del desiderio che pulsa in Elio, motore del legame affettivo e dell’affinità elettiva con Oliver: le statue presenti sin dai titoli di testa, da quelle di Prassitele nelle diapositive del padre di Elio a quella ritrovata nel lago di Sirmione, rievocano la fisicità statuaria di Armie Hammer ma anche il modello dell’amore omosessuale codificato dalla letteratura greca. Eraclito è l’oggetto della tesi di dottorato di Oliver e la tensione tra essere e divenire al centro del pensiero del filosofo si materializza nell’acqua, quella della piscina in pietra della villa, del laghetto del luogo del cuore di Elio, delle cascate che segnano gli ultimi istanti preziosi della loro relazione. E poi c’è la natura rigogliosa, idilliaca, delle campagne padane e dei frutteti della villa, con l’albicocca – più ancora della pesca, protagonista di una scena discussa e controversa, presente comunque anche nel romanzo – a farsi simbolo del primo, precoce ma totalizzante amore che Elio prova per Oliver.

Questi riferimenti non devono però far pensare a Chiamami col tuo nome come a un film inutilmente estetizzante. Guadagnino restituisce con le sue immagini matericità, sensorialità e soprattutto sensualità: dell’estate, della natura, dei corpi e dei loro tremori, ottenendo un effetto di pura autenticità, viatico fondamentale per l’investimento e il coinvolgimento dello spettatore. Il regista guarda esplicitamente a padri nobili come Jean Renoir, Éric Rohmer, Bernardo Bertolucci, Jacques Rivette e il Maurice Pialat di Ai nostri amori, ma ha comunque saputo trovare in questo caso una strada personale con un film che vibra per equilibrio e intensità emotiva. 

Se il film mantiene una solida coerenza per tutta la sua durata è perché tutte le componenti filmiche lavorano nella stessa direzione della regia, suonando un unico spartito: dal montaggio del fidato Walter Fasano all’opera dell’interior designer Violante Visconti di Modrone che ha dato vita e consistenza alla villa dei Perlman trasformandola in un personaggio centrale; dalla splendida fotografia di Sayombhu Mukdeeprom alle canzoni di Sufjan Stevens e in generale a una colonna sonora (tra hit anni 80 e musica classica) che assurge a manifesto in note dell’interiorità di Elio.

Inevitabile il capitolo delle interpretazioni, dove spicca innanzitutto un perfetto Michael Stuhlbarg, interprete del padre di Elio, che in uno straordinario monologo ricorda al figlio – e allo spettatore – che l’amore senza riserve, pur spesso generatore di dolore e senso di perdita, è un dono prezioso della giovinezza.

Sottovalutata dai più la prova di Armie Hammer, che non si limita a essere l’oggetto del desiderio di Elio ma rende l’evoluzione del suo personaggio – e il crescente svelamento dei suoi sentimenti verso l’amante – con piccoli ma significativi gesti, sguardi, espressioni, modulazioni della voce. La sua alchimia con Timothée Chalamet è uno dei motori per la riuscita del film, insieme alla performance del giovane attore americano di padre francese che è il più giovane nominato all’Oscar come attore protagonista dagli anni 40 del secolo scorso. Star emergente dell’anno, Chalamet libera Elio dalle catene di luoghi comuni e stereotipi, calandosi con sorprendente magnetismo nel personaggio di un ragazzo acculturato e solitario (diventerà un grande pianista) che tra dispetti, pulsioni, ripensamenti, cerca e trova risposte su di sè abbandonandosi all’altro.