Biografilm Festival 2018: Whitney, la recensione

Dopo l’anteprima al Festival di Cannes arriva al Biografilm Festival Whitney, il documentario dedicato alla pop star dei record Whitney Houston. Diretto dallo scozzese Kevin Macdonald (State of Play, L’ultimo re di Scozia), che di documentari se ne intende – da Un giorno a settembre premiato con l’Oscar a Marley – Whitney è stato accompagnato alla manifestazione bolognese dal produttore Simon Chinn, due volte vincitore dell’ambita statuetta con Man on Wire e Sugar Man, che proprio grazie al Biografilm Festival è diventato un cult in Italia. Chinn ha raccontato come il documentario sia stato fortemente voluto da Patricia Houston, ex manager, cognata di Whitney ed esecutrice della sua eredità, che ha lasciato carta bianca a Chinn e Macdonald nella realizzazione del film.

 

Whitney non è perciò un’agiografia, ma l’indagine sulla vita, la carriera discografica – da oltre 200 milioni di dischi venduti – e soprattutto sulla morte della star afroamericana nata a Newark e prematuramente scomparsa l’11 febbraio 2012 a causa dell’annegamento accidentale nella vasca da bagno di un hotel, in cui avrebbero pesato anche gli effetti di una cardiopatia aterosclerotica e dell’uso di droghe.

Alternando sapientemente materiale d’archivio personale della famiglia Houston (foto e video), esecuzioni live a concerti e trasmissioni, interviste televisive e interviste raccolte per il documentario alla madre Cissy Houston, ai fratelli Michael e Gary, all’ex marito Bobby Brown, e a chi le era più vicina sul lavoro e non solo, Macdonald ricostruisce l’ascesa e la caduta di Whitney, per tutti in famiglia Nippy.

Sono proprio le dinamiche e le situazioni della famiglia Houston a essere vivisezionate dal documentarista, ritenendole la causa scatenante del profondo malessere della cantante, incapace di trovare una vera identità prima di tutto come essere umano. Cresciuta in maniera inflessibile da Cissy Houston, membro di The Sweet Inspirations e corista per artisti quali Aretha Franklin ed Elvis Presley, “condannata” dalla genetica – era cugina di Dee Dee Warwick e Dionne Warwick – ad avere un talento vocale strepitoso, Whitney è preparata sin da piccola alla carriera professionistica, tenuta lontana dalle compagnie poco raccomandabili del quartiere per frequentare una scuola privata. E quando è realmente consacrata a super star, diventa il perno attorno cui tutta la famiglia ruota intorno e si appoggia, soprattutto economicamente. Un perno purtroppo assai precario, come dimostrano il matrimonio violento e distruttivo con Bobby Brown, la maternità di Bobbi Kristina vissuta in maniera controversa, il progressivo scivolamento nella dipendenza dalle droghe.

Adottando l’approccio di un’inchiesta giornalistica, Kevin Macdonald decostruisce, scava, fa domande e ottiene risposte che lo conducono a una clamorosa rivelazione capace forse di spiegare il motivo dell’insicurezza e della fragilità emotiva e sentimentale di Whitney Houston. Per questo, Whitney è un documentario doloroso, in particolare per chi apprezza o ha apprezzato l’artista, che appare nelle immagini indifesa, vulnerabile, in balia di se stessa, senza che la famiglia sia mai intervenuta concretamente per aiutarla a uscire dal gorgo in cui era precipitata.

Manca purtroppo nel documentario il rapporto tra la cantante e la sua musica, però emerge in maniera nitida il ruolo – pure con risvolti problematici – ricoperto da Whitney Houston nello sdoganare l’immagine della comunità afroamericana: una donna di colore bella, elegante e dotata di una grande voce raggiunge le vette delle classifiche mondiali e conquista Kevin Costner in Guardia del Corpo, quasi mettendolo in ombra. E anche se a un certo punto della sua carriera subisce le critiche della frangia più estrema della comunità nera per la deriva pop delle sue canzoni – veniva soprannominata Whitey -, poi convince tutti con l’inno nazionale interpretato al Super Bowl del 1991, riuscendo a coinvolgere anche gli afroamericani che avevano spesso mal digerito l’inno americano. Volto e voce di un mondo che non c’è più – quello anni Ottanta cristallizzato all’inizio del film e anni Novanta – Whitney Houston si congeda dagli spettatori con uno dei pochi successi ripresi nel film, lasciando in eredità un talento colpevolmente lasciato andare.