La triste storia di un asinello diviene parabola pessimista di un grande e ostico autore francese.
Non è facile parlare del grande Robert Bresson (Bromonth-Lamothe, 25 settembre 1907 – Parigi, 18 dicembre 1999), così come non è semplice guardare una sua opera. Non è semplice perché egli sottopone lo spettatore ad una visione impegnativa in cui il linguaggio scarno e povero riflette l’asciuttezza di un racconto senza ritmo e senza apparente drammaturgia. Paradossalmente, tanto più semplice appare la forma tanto più complesso pare essere il suo significato interno. Questa pellicola non fa eccezione e, anzi, si colloca come una delle più note e amate del regista francese, nonché paradigma del suo intero corpus.
Balthazar è un asinello che nasce nella campagna francese. Entra come cucciolo in una famiglia borghese dove viene accudito dal piccolo Jacques e dopo qualche tempo viene donato alla povera Marie, figlia di umili contadini. Balthazar col tempo diviene un fedele compagno di giochi e di vita per la triste e mite fanciulla fino al giorno in cui viene affidato ad un panettiere. È qui che inizia il lungo travaglio della povera bestiola, passando di mano in mano, di padrone in padrone, di tortura in tortura. Il garzone Gérard lo usa per consegnare il pane e per divertirsi ai suoi danni. Un matto alcolizzato lo picchia senza motivo. In un circo viene esibito come fenomeno della matematica, dimostrando di sapere fare i calcoli. Un anziano e solitario fattore lo fa lavorare fino allo sfinimento. Viene poi adoperato per trasportare delle reliquie durante una processione sacra. Ritornato da Marie viene di nuovo angariato da Gérard.
Marie e Balthazar
Figura speculare a Balthazar è quella di Marie (Anne Wiazemsky), personaggio che, come l’asinello, subisce torti e violenze. Come una bestia, Marie sopporta prima la lontananza dal suo amato asinello, poi la violenza da parte di Gérard, i ricatti di uno dei proprietari di Balthazar, infine lo stupro di gruppo da parte di Gérard e della sua comitiva. Solo Jacques le dimostra sincero amore e interesse per la sua persona. Ma Marie è confusa, non sa più da che parte stare, sente di non meritare il suo amore perché ormai compromessa e traviata dagli eventi. Dopo la violenza di gruppo va via, uscendo di scena.
Si è spesso voluto leggere questo film come un’allegoria cristologica e fortemente religiosa. In effetti, molti elementi rimandano ad un tipo di lettura del genere, come il nome della ragazza, Marie, la figura presepiale dell’asino, le pene che pare debba espiare per colpa degli uomini, il ruolo centrale che ricopre nella processione sacra fino all’appellativo di “santo”, che gli affibbia la madre di Marie nel finale. È però anche vero che non vi è speranza per gli uomini o redenzione o possibilità di riscatto. Tutto sembra pervaso da un pessimismo cupo e inesorabile a cui concorre la maestria di Bresson nel sottrarre, nell’eliminare qualsiasi elemento drammaturgico e nel mostrare solo i gesti di attori adoperati come vuoti fantocci che declamano le battute.
Balthazar è più buono delle persone che incontra, più intelligente – come dimostra nella sequenza del circo –, e certamente più “umano” degli uomini. Straziante il finale della pellicola, quando l’asinello decide di lasciarsi andare e di morire, per trovare finalmente un po’ di pace, immerso nel candore delle pecore di un gregge. Il suono dei campanacci è la colonna sonora di una morte silenziosa e dignitosa, che non interessa a nessuno, neanche a loro che alla fine lo lasciano solo, abbandonato a se stesso, così come ha vissuto nella sua triste e dolorosa vita.