Alain, un editore parigino di successo che fatica ad adattarsi alla rivoluzione digitale, nutre seri dubbi di fronte al nuovo manoscritto di Léonard, uno degli autori con i quali collabora da lunga data, trattandosi dell’ennesima opera autobiografica che prende spunto dalla sua relazione con una celebrità di secondo piano. Selena, moglie di Alain e affermata attrice teatrale, è del parere opposto.
Olivier Assayas è un fuoriclasse del cinema e Doubles vies – presentato in concorso alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia – ne è l’ennesima dimostrazione. Dopo il mezzo passo falso di Personal Shopper, nel quale dimostrava di avere poca dimestichezza con l’estetica del thriller sovrannaturale e soprattutto di non saperlo riadattare alle proprie esigenze, il francese torna a un genere a lui più consono e imbastisce una commedia divertentissima nella quale, ça va sans dire, l’intelligenza e l’arguzia la fanno da padrone.
Il tema è uno, nessuno e centomila, attuale e tostissimo: si ragiona di rivoluzione digitale e di come questa stia spostando le coordinate in ogni ambito della comunicazione. Un argomento complesso, ricco di sfumature, del quale Assayas non cerca mai una facile sintesi, quanto semmai una stimolante problematizzazione: i vari personaggi del film hanno idee molto diverse l’uno dall’altro, e guardandoli con una certa distanza ci si accorge di quanto abbiano tutti un po’ torto e un po’ ragione, di come insomma sia complicato decidere da che parte stare. L’editoria, l’arte, l’economia, la politica, l’informazione e la cultura: tutto è profondamente mediato dalle nuove tecnologie, e chi le sa utilizzare meglio riesce a prevalere sugli altri e ad affermare la verità condivisa dal mondo, percepito e dunque reale.
Il grande merito di Assayas è quello di riuscire a costruire un intreccio degno del miglior Woody Allen che riesce a moltiplicare i livelli di lettura dell’opera filmica, ampliandone significati e portata: i tradimenti, i sotterfugi e le debolezze dei protagonisti finiscono per toccare a più riprese le tematiche di base, senza mai essere semplice orpello ma rappresentando un vero e proprio elemento significante.
Dialogo dopo dialogo, scambio dopo scambio, risata dopo risata, ci si accorge che la leggerezza di Assayas è solo apparente, perché l’asse attorno al quale ruota il film si sposta gradualmente, ampliandone il senso all’interno di un contesto infinitamente più ampio: a differenza della produzione digitale, in costante cambiamento e fatalmente modificabile o mal interpretabile, esiste qualcosa di eterno nelle relazioni umane, qualcosa di immutabile e di persistente, che rappresenta forse l’unico punto fermo della nostra esistenza.
Nessuna retroguardia o agitazione luddista, per fortuna, ma soltanto una centratissima riflessione attorno all’essere umano e alla sua capacità di immaginare il futuro senza mai dimenticare il passato.
Assayas non sembra avere molte certezze, ma da grande uomo di cultura e di cinema sembra dirci di quanto sia necessario restituire alla mediazione soggettiva un ruolo fondamentale nelle dinamiche comunicative, ma anche e soprattutto che sino a quando doppiezza e ipocrisia non scandiranno il passo delle nostre dimensioni più intime esisterà ancora qualcosa di importante per cui ha senso continuare a lottare.