Dopo mesi trascorsi senza trovare il colpevole dell’omicidio della figlia, Mildred Hayes (Frances McDormand) compie un gesto audace e fatalmente non compreso dai suoi concittadini: lungo la strada che conduce in città, noleggia tre cartelloni pubblicitari sui quali piazza un controverso messaggio diretto allo stimato capo della polizia locale William Willoughby (Woody Harrelson). Quando nel caso viene coinvolto anche il vice Dixon (Sam Rockwell), uomo immaturo e dal temperamento violento e aggressivo, lo scontro tra Mildred e le forze di polizia di Ebbing diventa sempre più duro.
Che Martin McDonagh fosse un eccellente commediografo e sceneggiatore lo si sapeva già da un po’: gli apprezzati lavori teatrali che sin dalla fine degli anni Novanta avevano richiamato l’attenzione degli addetti ai lavori e, successivamente, l’esordio su grande schermo, raccontavano di un eccellente creatore di dialoghi e di storie, capace di coniugare alto e basso, humour nero e commedia, mostruosità e meraviglia. Tre manifesti a Ebbing, Missouri, inserito nel concorso della settantaquattresima edizione del festival lagunare, non fa eccezione e ci restituisce un autore ulteriormente cresciuto e perfettamente a suo agio nel coniugare le grandi doti di scrittore con quelle probabilmente meno scontate di regista.
Affidandosi a un cast di livello elevatissimo e scivolando placido tra le pieghe di una folgorante colonna sonora, McDonagh è costantemente in grado di tenere a bada la voglia di strafare – come invece non avveniva nel precedente 7 psicopatici e solo in parte nel bell’esordio In Bruges – e allo stesso tempo di costruire un film acuto ed estremamente personale, nel quale la commedia nera dialoga con il dramma, non scendendo mai a compromessi e prendendosi il lusso di non strizzare mai l’occhio allo spettatore.
Perchè se è vero che alla base del racconto c’è molto dei Coen che furono, a sorprendere è proprio la capacità del regista di intraprendere un sentiero mai solcato prima e di trasformare un dramma familiare in un western moderno, nel quale la protagonista cammina come John Wayne, la violenza genera altra violenza e la miseria umana appare in tutta la sua sconcertante banalità. Un film profondamente politico, nel quale molti temi di strettissima attualità vengono declinati sottotraccia, con l’abilità tipica di chi senza proclami riesce a costruire una storia potente e allo stesso tempo radicata nella contemporaneità.
Ma quello che rende davvero prezioso il lavoro di McDonagh è l’empatia che l’occhio della macchina da presa mostra di avere nei confronti dei protagonisti, anche e soprattutto quando l’operazione diviene molto rischiosa perché in campo non sono presenti personaggi edificanti, o comunque vicini alle istanze del pubblico: una storia che ruota attorno al rancore, alla colpa e alla vendetta, che passa dalla ricerca del perdono a un’eventuale (e impossibile) redenzione attraverso la violenza, la discriminazione e l’amore. Temi che riescono a scandagliare i meandri delle coscienze e a smuovere lo spettatore, inducendolo a spostare la linea di demarcazione delle sue convinzioni e a riflettere sulla tensione costante che produce nuove e mutevoli consapevolezze.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è senza ombra di dubbio uno dei film più belli e più intensi visti in concorso a Venezia 74, che punta dritto a un riconoscimento importante nel palmares e che lancia una straordinaria Frances McDormand verso importanti candidature in vista della prossima stagione dei premi.
Voto (da 1 a 5): ★★★ ½