“Stranierə ovunque” è il messaggio di accoglienza di questa Biennale d’arte veneziana affidato al collettivo Claire Fontaine e accompagnato da un astronauta di Yinka Shonibare (all’Arsenale).
L’articolata esposizione e la quantità di stimoli forniti da questo evento è sempre smisurata e riuscire ad avere una visione complessiva e davvero profonda della manifestazione è una impresa ardua e possibile praticamente solo per addetti ai lavori e poche altre persone che riescono a dedicarci molti giorni.
Detto ciò, andando a ripescare gli stimoli raccolti dalla Biennale di Venezia e ai suoi sottesi intenti, per uno come me che da diverse edizioni la frequenta, si evince che i lavori che fanno breccia sembrano ridursi e la capacità di rinnovarsi e di lasciare il segno si stia affievolendo. Ciò non significa che non ne valga la pena, ma l’aura di cui si circonda la manifestazione sembra più un rimando storico e dovuto al battage mediatico, oltre alla cornice e alla situazione in cui si inserisce.
Ho trovato molti lavori che mi hanno lasciato quasi indifferente (il che è peggio che non apprezzarli) e questo è dovuto alla mancanza di incisività del messaggio, in altri casi ho riscontrato un gap tra quello che l’artista vuole dire e il modo in cui lo rappresenta, come ad esempio il lavoro di Dana Awartani, molto bello nell’impatto, ma incomprensibile nel collegamento dell’intento sottostante.
Ma oltre a ciò ho anche incontrato lavori meritevoli per vari motivi. Si sa bene che quando si va a visitare una esposizione non è necessario che sia tutto bello, anzi. Il successo arriva quando anche solo un’opera si incide nella nostra esperienza. E qui più di qualcuna è arrivata a destinazione. Premettendo che ho preferito nella loro complessità i Giardini, voglio menzionare alcuni progetti dell’Arsenale.
I “Bordadoras de isla negra” erano un gruppo di donne autodidatte che attraverso il ricamo ha raccontato la vita di una zona costiera del Cile. Il lavoro esposto per breve tempo nel 1972 fu fatto scomparire all’insediamento di Pinochet ed è ricomparso solo nel 2019. Un giusto e profondo riconoscimento è stata la possibilità di rivederlo in queste mura internazionali. L’impatto quasi naïf e infantile del risultato è di una poesia sconfinata. Da vedere e assaporare con cautela.
Il lavoro che più mi ha colpito dell’Arsenale è stato Aguacero del colombiano Daniel Otero Torres, una palafitta che rappresenta il metodo con cui viene raccolta l’acqua piovana dai gruppi emarginati lungo il fiume Atrato, in quanto quella del corso d’acqua vicina è contaminata dalle aziende che estraggono illegalemente l’oro. La suggestione dell’acqua che scende dall’alto e percorre tutti gli accrocchi assemblati per finire in bidoni, a loro volta forati che disperdono parte di quello che viene raccolto, per finire in una vasca-acquitrino alla base, ti colpisce in profondità. Riesce a trasmettere il dramma di quella situazione in modo estremamente efficace. Il linguaggio utilizzato è pregnante e senza mediazioni, molto immediato e diretto.
Non è tanto l’estetica a contare, ma il meccanismo e la restituzione del dramma.
Molto pertinente col tema dell’edizione 2024 della Biennale di Venezia è il lavoro The mapping journey project di Bouchra Khalili, artista franco-marocchina. La narrazione è quella delle rotte migratorie mediterranee fatta assieme a rifugiati e cittadini apolidi di varie zone. Viene fatto loro raccontare il viaggio, le esperienze che hanno affrontato e tutte le tappe del loro cammino. La narrazione viene accompagnata da grandi schermi in cui una inquadratura fissa è puntata sulla carta geografica dell’Europa e la mano del narratore disegna col pennarello tutte le tappe e i giri che ha fatto fino a quel momento. Il metodo è efficace e ti proietta all’interno della difficoltà vissuta da quelle persone e dalla loro storia personale.
Davvero meritevole, un lavoro forse più di taglio sociologico, ma che propone le storie con una estetica accattivante.
Devo menzionare la forza espressiva di Santiago Yahuarcani, un peruviano che appartiene al clan Aimeni, un autodidatta che rappresenta visivamente le narrazioni dei suoi antenati. Dal vivo ci si può perdere nei suoi mondi che possono evocare Guernica di Picasso, Bosch, e molto altro.
Chiudo la narrazione sull’Arsenale con Sussurra il deserto e si leva la voce di Manal AlDowayan, installazione multimediale dell’artista saudita. Grandi sculture a forma di petalo rimandano alla rosa del deserto sulle quali sono impressi testi serigrafati che parlano delle donne saudite. Un canto e i rumori del vento e della sabbia ci accompagnano in questa suggestiva esperienza. Provare per credere.
L’opera migliore dei Giardini la possiamo trovare nel padiglione francese con Julien Creuzet e le sue radici caraibiche. Questa vince a mani basse grazie al miscuglio di stimoli che fornisce. Un vero trip ammaliante che oscilla tra il tribale e la decadenza contemporanea attingendo ad antiche mitologie. Sculture zoomorfe fatte con tessuto cadente, altre che fungono da vasca antropomorfa circondate da musica simil trip hop e in alcune pareti tocchi di videoarte che narrano di sculture classiche che sprofondano nel mare. Il tutto pare sia opera della tarantola della Martinica, la quale è il simbolo che ti accoglie nel depliant introduttivo…
Va menzionato anche il talento di Jeffrey Gibson con il suo articolato intervento The space in wich to place me nel padiglione americano.
Le sue origini Cherokee emergono chiaramente e l’impatto delle sue sculture non lascia indifferenti. Il padiglione è molto pop, ma per nulla frivolo, anzi.
Menzioni particolari vanno al Padiglione giapponese, a quello serbo e per l’idea a quello coreano.
Il Giappone con Compose di Yuko Mohri ci introduce in un mix di pratiche umane basilari attraverso delle sculture cinetiche che rappresentano il recupero delle infiltrazioni e delle perdite dell’acqua che avvengono nelle stazioni della metropolitana giapponese; l’utilizzo di questo movimento viene tramutato in energia. Questa raccolta d’acqua sviluppa una energia che viene incanalata su delle strutture che creano movimento, fanno suonare strumenti e altro. Al contempo l’energia viene anche estrapolata da frutta in decomposizione, dall’umidità che progredisce catturata da elettrodi applicati sulla frutta. Questa energia estrapolata dalla decomposizione alimenta lampadine che si accendo a fasi alterne, oppure muta il suono che fuoriesce dagli strumenti.
Uno strano spazio che ci porta dentro la cultura giapponese in modo assai affascinante e pure cervellotico.
Il padiglione coreano coglie l’idea di rappresentare i luoghi simbolici della sua geografia grazie a un coinvolgimento della popolazione, la quale racconta quali sono gli odori che ricordano ed evocano uno spazio. Una narrazione olfattiva dei luoghi della Korea del sud a opera di Koo Jeong A: Odorama Cities.
Chiudo con il padiglione serbo: Exposition Coloniale di Alexandar Denić.
Impattante, immersivo ed efficace. Si entra in uno spazio che rappresenta uno spaccato di quello che è la Serbia da quando esiste l’Europa. Una denuncia sottile attraverso l’utilizzo di molti simboli del commercio occidentale, dei grandi marchi inseriti in spazi quotidiani. Ottima la soluzione che vede la grande scritta Europe posizionata all’estremità interna destra del padiglione così da ritrovarsi completamente dentro quella situazione. Una riflessione che smuove in modo sibillino interrogativi di vario tipo. Ma cosa vuole dire? Si provano delle emozioni strane a passare in quegli spazi, e questo credo che basti e avanzi.
Sicuramente ce ne sarebbe ancora da dire su questo evento così importante e rappresentativo dell’arte contemporanea. Questo è un assaggio e un punto di vista con cui confrontarsi e tirare fuori le proprie curiosità e perplessità. Perché è a questo che serve parlare delle esperienze che viviamo.