Dici Paolo Sorrentino e pensi a Fellini. Questo è ciò che dicono buona parte dei critici e cinefili per circoscrivere, ma anche ridimensionare, la poetica del nostro regista più importante e riconosciuto oggi nel mondo. E se è vero che vi sono assonanze nell’estetica ridondante e barocca, e in una struttura narrativa che in molti film fino all’ultimo Parthenope si fonda più su accumulo di suggestioni che nello sviluppo di una trama vera e propria, le similitudini sono più superficiali che di sostanza. Se c’è da sempre un nume tutelare nel cinema di Sorrentino, lo dobbiamo rintracciare invero in uno scrittore, Raffaele La Capria: per Paolo Sorrentino Ferito a Morte è il libro faro di un’intera poetica, l’architrave che ha ispirato e continua ad ispirare la vera essenza del cinema sorrentiniano.
Ferito a Morte, o del tempo trascorso
Ferito a Morte è il capolavoro di La Capria, scrittore che proprio come Sorrentino si trasferì da Napoli a Roma per inseguire la sua carriera artistica. Uscito nel 1961, il romanzo racconta l’estate di alcuni giovani napoletani di estrazione borghese, ed è probabilmente il più bel libro mai scritto (almeno per la produzione nostrana) sulla malinconia del tempo perduto, sulla giovinezza come tempo sospeso, fatto di scherzi, chiacchiere, amori e seduzioni. Vi ricorda qualcosa?
Il romanzo, vincitore del Premio Strega, è diventato un classico della letteratura italiana, rendendo La Capria una personalità illustre del panorama intellettuale nazionale, che ha avuto una fortunata carriera di scrittore e sceneggiatore, senza riuscire però ad eguagliare le vette artistiche raggiunte con il capodopera. Ma quel libro, con il suo titolo bellissimo ed enigmatico, ha ispirato e continua ad ispirare artisti di ogni campo, compreso un giovane Paolo Sorrentino, che non ha mai fatto mistero di aver progettato di fare un film da Ferito a Morte. Non c’è riuscito, forse per una questione di finanziamenti, forse per la difficoltà di misurarsi direttamente con un libro così amato, da lui e non solo. Ma in qualche modo Paolo Sorrentino Ferito a Morte lo ha messo in tutto il suo cinema, da L’uomo in più fino a Parthenope appunto, rendendo sempre più esplicita la derivazione poetica nel corso degli anni.
Il tempo nel cinema di Paolo Sorrentino
Nei primi film Paolo Sorrentino metteva in scena uomini più grandi anagraficamente di lui, persone di mezza età che davanti a un bivio esistenziale si trovano a confrontarsi con i rimpianti della gioventù, al possibile riscatto di una seconda occasione che sfuma inesorabilmente, personaggi dominati da una stanchezza di vivere anch’essa di derivazione molto letteraria, appena celata da un ultimo lampo di potenziale felicità. Il calciatore e il cantante connotati da omonimia nel felice esordio L’uomo in più, così come i protagonisti de Le conseguenze dell’amore e del sottovalutato L’amico di famiglia, sono esattamente tutto questo, e l’anziano protagonista di Youth, titolo ossimorico sulla felicità sopraggiunta quando pensi di essere arrivato alla fine, ne è quasi il corollario.
Con gli internazionali This Must be the Place e la serie The Young Pope Sorrentino comincia a raccontare personaggi anagraficamente prossimi a lui, e dunque a confrontarsi direttamente con la nostalgia e i nodi irrisolti della vita. In mezzo c’è La grande bellezza, il film più famoso e celebrato, vincitore del premio Oscar, che dietro alle impennate visionarie felliniane e gli scorci corrosivi di intellettuali vanesi figli de La Terrazza di Scola nasconde nient’altro che Ferito a Morte, il rimpianto di un amore giovanile perduto (l’immagine ricorrente del mare legato alla gioventù nei film di Sorrentino è puro La Capria) per un intellettuale “destinato alla sensibilità” che sembra essersi smarrito.
E arriviamo all’oggi, al magnifico dittico costituito da È stata la mano di Dio e Parthenope: il ritorno a Napoli, odiata ed amata come solo un napoletano verace può fare, i conti personali con il proprio tragico vissuto familiare da un lato, e la visione di una gioventù forse mai pienamente vissuta e trasfigurata in un personaggio femminile, prima volta per il Nostro. Un Paolo Sorrentino Ferito a Morte all’ennesima potenza, fragile e nudo nella scoperta, profonda malinconia, quella che noi napoletani chiamiamo appocundria e che stempera l’ironia che da sempre caratterizza situazioni e dialoghi del cinema di Sorrentino in un profondo dolore di vita. E così scopriamo che Sorrentino ha sempre innervato di La Capria il suo cinema, anche nei suoi film politici come Il Divo e Loro, nei frammenti privati all’ombra delle azioni pubbliche. Un cinema ferito a morte da guardare e vivere senza badare troppo alle ampollosità delle parole e dalla necessità di comprendere ogni metafora e simbolismo visivo: i film di Sorrentino si nutrono di quegli scarti minimi, degli elementi apparentemente superflui, inessenziali e futili che in fondo caratterizzano la vita di ognuno di noi.
Appocundria me scoppia
Ogne minuto ‘mpietto
Pecchè passanno forte
Haje sconcecato ‘o lietto
Appocundria ‘e chi è sazio
E dice ca è diuno
Appocundria ‘e nisciuno