Infinite forme di salvezza?

Come guardare fuori da una finestra di una casa dove ci siamo rifugiati, la nostra stanza, magari al crepuscolo, quell’attimo di bilico tra la notte e il giorno, tra la luce e il buio, quando nemmeno più le ombre possono essere per noi di conforto. Così è il nuovo disco di Dilis, Infinite forme di salvezza, sette tracce uscite quest’anno per la Disordine Dischi.

Nelle nostre stanze, quelle segrete, è proprio lì che ci porta Pietro Di Lietro in arte Dilis, dove non ci sono spiragli, dove non c’è aria e pure trattenere il fiato diventa complicato, vittime di noi stessi e delle persone amate, della persona amata, di lei che per pigiama indossava la nostra maglietta preferita, di lui che costruisce muri per difendersi, barriere e confini dai quali godersi il finale, di loro, essi, codesti che un timido saluto dato di fretta è pura meraviglia. Sette tracce per invitarci a entrare nella sua stanza, quella di Dilis. Apre le porte. Infinite forme di salvezza inizia così, una porta socchiusa a farci entrare. Anche i vampiri hanno bisogno dell’invito, così noi. Come succhiare sangue, vita, linfa e respiri e sussurri.
Inizia così Infinite forme di salvezza, un raggio di luna, un pezzo strumentale. In punta di piedi, come di pioggia all’esterno, come di corridoi e voci lontane, quelle che abbiamo amato. E se non ci fossero forme di salvezza? E se fosse ancora troppo presto prima della fine del mondo? Non è facile lasciarsi indietro il peso di tutte le cose, e diventa notte, si fa notte in un gioco continuo di tempo che scorre. Da quel filo precario che era il nostro crepuscolo siamo caduti, scivolati nell’abisso. Si apre così Dove finisce la notte.

Ci sono ombre e lati oscuri in questo lavoro di Dilis che a forza di buio gli occhi si abituano e sono pronti anche al più piccolo spiraglio di luce. Così non importa poi davvero dove la notte va a finire se poi la mattina ritroviamo sempre il confine. Troviamo la salvezza in quell’unico raggio diventato di sole. Pietro riparte da quella sola goccia d’acqua che però non toglie la sete, piuttosto la placa. Siamo tutti seduti al suo pianoforte, mani intrecciate e parole nascoste tra i tanti tasti neri, quelli dei nostri pensieri. Mentre cerchiamo quelli bianchi, più sinceri, la luce e la salvezza ci ritroviamo Naufraghi in un mondo alla deriva, in questo inverno nucleare.
Ancora una volta non importa dove finisce la notte, quando il buio prende il sopravvento e gli incubi insistono se al mattino quel raggio, quel sottile raggio di luce illumina il mio cuscino e i tuoi capelli.

Come naufraghi Dilis ci porta tra le onde della nostra vita, dei nostri amori andati e da venire, saliamo su e giù, siamo in vetta, siamo in cima Ancora noi, nonostante tutto e siamo sempre noi di nuovo sotto a pochi metri dal suolo, da quell’inferno di chi sono io e di chi sei tu. È la vita che ci porta naufraghi, accompagnati da pochi fidati naviganti, Ilaria Scarico al basso, Gianluca Timoteo alla batteria, Dario Patti al violino, Michele de Finis alla chitarra elettrica. Ancora noi, una coda strumentale a coprire i nostri segreti, i nostri rancori, i nostri finti bagliori, quelli delle rivelazioni, come quando il cantautore campano ci ricorda che siamo tutti vittime di qualcuno che non ha saputo gestire il rancore.
Tutti vittime e fa male, tremendamente male anche solo tornare a respirare e come in un’estate che sta finendo, che non vogliamo ricordare, sbiadita come certe foto sbiadite al sole. Forse dimenticare ci salverà dal dolore e possiamo convincerci ancora una volta che andrà tutto bene.

Possiamo convivere con le domande senza risposte che ci porteremo dietro e continuare a salutare da lontano, perderci in Inevitabili distrazioni, dire ‎Goodbye quando qualcosa ci fa male e tornare ancora una volta in quella stanza che è la nostra, che è quella di Dilis, che è quella dei nostri amori. E possiamo Cambiare l’acqua ai fiori del giardino, di quel giardino che è con lei perché poi alla fine non siamo ancora stanchi di guardare il cielo noi.
Noi che possiamo forse di nuovo uscire da questa casa, da questa stanza, che è la sua stanza, la nostra stanza. Guardare fuori, guardare in alto, pensare che c’è ancora tempo, ferirci gli occhi di luce e ritornare dentro che non importa poi davvero.