Wes Anderson: radiografia di un artista in crisi

Per tutti coloro che si sono appassionati al cinema a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila Wes Anderson ha rappresentato molto più di un autore di culto, risultando un simbolo generazionale e un modo innovativo di intendere la scena indipendente a stelle e strisce, insieme al suo quasi omonimo Paul Thomas Anderson. E proprio l’ammiratore, il seguace, il fan – termine da usare sempre con circospezione e sospetto – oggi è lo spettatore maggiormente disorientato dalla piega che ha preso il cinema di Wes Anderson, che da un certo punto in poi sembra aver barattato l’emozione che era in grado di trasmettere la sua opera con un controllo formale sempre più perfezionista, ma in fin dei conti soffocante, come dimostra anche l’ultimo La trama fenicia, appena uscito in sala con pochi riscontri, e snobbato senza troppi complimenti dalla giuria del Festival di Cannes, dove è stato presentato ancora una volta in Concorso.

L’ascesa di Wes Anderson

I Tenenbaum

Chi scrive ricorda bene l’eccitazione che accompagnò l’uscita nel 2001 de I Tenenbaum nelle sale italiane, il film che ha fatto conoscere Wes Anderson al grande pubblico. A rivederlo ci sono già tutti i segni distintivi del suo cinema: inquadrature simmetriche con un’organizzazione maniacale dello spazio filmico che esalta la prospettiva, la prossemica e la profondità di campo, colori caldi e sgargianti, una direzione degli attori che sembra mettere insieme la fissità keatoniana con un ritmo interno quasi da cartoon alla Tex Avery, utilizzando un nutrito cast di stelle e volti ricorrenti film dopo film.

E le storie di Wes Anderson, emozionanti racconti familiari che mescolano tono surreale e malinconia, una maniera originale di raccontare dolori, ferite e disfunzionalità della vita di noi tutti che ha trovato una perfetta consonanza con un pubblico cresciuto ascoltando musica grunge e nel pieno della cultura emo, una simbiosi e un orizzonte comune che ha unito pubblico e autore. E così dopo quella folgorante iniziazione esplode la voglia di riscoprire i primi film Un colpo da dilettanti e Rushmore, fin lì poco visti, e attendere spasmodicamente ogni film successivo, come la visita di un amico caro che vive lontano e ogni tanto viene a trovarci, senza che la relazione venga intaccata dalla distanza e dal tempo trascorso.

Un mondo interiore che trova il suo pubblico

Certo il cinema di Wes Anderson ha sempre richiesto uno sforzo, la necessità di entrare in questo strano mondo di tinte pastellate e accordarsi a un sentimento che poteva lasciare freddo e indifferente un certo tipo di spettatore. Perdonerete se ancora una volta si ricorre all’aneddotica personale, ma il ricordo vivido di dibattiti con colleghi anagraficamente “senior” circa la validità dell’autore ha sempre confermato nel sottoscritto quanto Wes Anderson sia davvero un autore generazionale, figlio del suo tempo e capace di trovare una sintonia immediata con chi quel tempo lo ha abitato, vissuto, condiviso. Non sorprende che il cinefilo d’antan abbia trovato maggiori difficoltà a capirne il valore, una mancata comprensione figlia di un disallineamento temporale.

Il tono eccentrico e l’attenzione alla forma delle commedie di Wes Anderson sono l’involucro di una drammaturgia che trasmette sottopelle una sincerità disarmante: si può rimanere spiazzati da scelte come una colonna sonora fatta di cover in portoghese di David Bowie come ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, il film più controverso (ma per noi amabile e da rivalutare con nettezza) della fase più felice della sua carriera, ma questo texano atipico dalla perenne faccia da bambino non vuole semplicemente stupire, è intento a edificare un universo simbolico condiviso, in cui l’emozione va di pari passo con l’exploit stilistico. È stato così per i tre fratelli che si ritrovano in viaggio con Il treno per il Darjeeling, e per la tenera storia d’amore pre-adolescenziale Moonrise Kingdom, buffa e commovente come può essere solo un amore sincero in quella fase della vita. Sono gli anni in cui il mondo interiore di Wes Anderson trova un pubblico felice di accoglierlo, uno zoccolo duro fedele e affezionato, che cresce film dopo film.

Un cinema tutto forma che ha perso sostanza

Grand Budapest Hotel

L’apice della carriera di Wes Anderson è stato nel 2014 Grand Budapest Hotel, in cui il sentimentalismo mai stucchevole dell’autore incontra il caper movie, un ibrido accolto in maniera eccellente da critica e un pubblico ancora più vasto, raccogliendo anche 4 Oscar e il Gran Premio della Giuria al Festival del cinema di Berlino. Sembravano i prodromi di una carriera ai massimi livelli, poi qualcosa si è rotto, inspiegabilmente. C’è stato ancora il tempo di realizzare un ottimo film in animazione stop motion, quell’Isola dei cani che fa il paio con il precedente del 2009 Fantastic Mr. Fox, prima che la tessitura emotiva del cinema andersoniano andasse spegnendosi nei film successivi. Sono gli anni in cui Wes Anderson diventa un marchio di fabbrica riconoscibile e riconosciuto, fonte di meme, video omaggi su You Tube, canzoni che ne incensano lo stile oramai “mitizzato”.

Aumenta la presenza di star, il budget e il numero di produttori vogliosi di dare carta bianca a WA, ma in maniera inversamente proporzionale le caratteristiche per cui lo abbiamo amato sono andate perdute. Il cinema di Wes Anderson è diventato esattamente quello che biasimavano i suoi detrattori della prima ora, non comprendendone allora la carica emotiva: un balocco vuoto. Non The French Dispatch, di certo nemmeno Asteroid City o la raccolta di cortometraggi ispirati a racconti di Roald Dahl La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre storie sono stati in grado di invertire la rotta. Con La trama fenicia Wes Anderson ha provato a tornare ai fasti di Grand Budapest Hotel anche per tipologia di genere e contaminazioni narrative, ma è un pallido, anemico ricalco privo del sincero slancio affettivo del capodopera.

Cosa resta del cinema di Wes Anderson? Ben lungi dal voler recitare il ruolo di amanti delusi, ci interroghiamo su cosa rappresenti oggi questo autore, nel momento peggiore che attraversa l’industria cinematografica americana, soffocata da un lato dal proliferare incontrollato di franchising e rifacimenti di ogni tipo, e da un altro versante dall’appiattimento all’ideologia woke che ne mina la complessità narrativa, lo slancio libertario, il necessario bisogno di trasgressione a molteplici livelli. E allora Wes Anderson è lo specchio di una crisi che temiamo irreversibile, un cinema avvitato dentro uno stile canonizzato ma che ha smarrito se stesso. La certificazione di un declino precoce, la dissipazione di un talento genuino, lo straniamento di un autore che non comprendendo più il mondo intorno ha scelto una prigione dorata. Lasciando il pubblico che lo ha amato solo con il proprio rimpianto.

Vorrei vivere in un film di Wes Anderson
Vederti in rallenty quando scendi dal treno

Coi personaggi dei film di Wes Anderson
Idiosincratici, più simpatici di me […]

Vorrei vivere in un film di Wes Anderson
Inquadrature simmetriche e poi partono i Kinks

Vorrei l’amore dei film di Wes Anderson
Tutto tenerezza e finali agrodolci

(Wes Anderson, I Cani)